Sembra un processo irresistibile quello della Società dello Spettacolo. Se fosse ancora vivo, Guy Debord si fregherebbe le mani: giganti, piccoli faraoni, Yawheh; ossa sovrumane, Atlantide, Sumeri, la grotta di Romolo e Remo, i morti di Pompei esposti dentro una piramide. Oltre, naturalmente , a una serie spesso irresistibile, di creazioni kitsch.
Modello del sensazionale che funziona, permette utili all’industria editoriale e cospicui finanziamenti – mentre si tagliano quelli a formazione, ricerca e tutela ordinarie – per installazioni ‘creative’: come la piramide inserita nell’arena dell’anfiteatro pompeiano, dalla quale guardare lo spettacolo della morte sfruttando e coltivando un macabro e indecente voyeurismo.
In questo filone dell’industria del tempo libero si sta inserendo organicamente la Sardegna.
Uno dei fatti più istruttivi è che la distorsione spettacolare dell’immagine, posta in antitesi alla scuola storiografica tradizionale che relegava la Sardegna antica (non solo, ovviamente) ad epifenomeno – per altro non sempre citato – della gloriosa storia italica, cattura il senso di inferiorità coltivato dalla pedagogia colonialista e introiettato da non pochi sardi, ne solletica la reazione, ne accoglie le proposte. Basate, guarda caso, su di un’immagine della Sardegna e dei sardi non troppo lontana dagli schemi dei dominatori. Eccoci perciò appena ripuliti eppure ancora selvaggi, spesso misteriosi; ma, per non essere da meno, i primi nella statuaria (anche noi ricorriamo, come i Romani, alla misura coi greci e non con altri. A caccia di record?) e comunque con le città, perché tali stanno diventando, in reazione a chi nega che il mondo nuragico le avesse…Come se non avere avuto città fosse degradante: anche questo un punto delicato, perché l’inferiorità dei modelli non urbani rispetto a quelli urbani è una costruzione tipica della vecchia ideologia storica del potere. In ogni caso, fieri e valorosi guerrieri, come diceva dei nuragici il pur bravo ma fascistissimo Antonio Taramelli.
A questi schemi piuttosto obsoleti, subalterni e basati su una rigida contrapposizione manichea tipica del dominare (quello attuale o quello che magari si vorrebbe), mal si adatta l’analisi dei rinvenimenti nella loro topografia reale e sociale, lo studio della differenza, la complessità dell’integrazione per dislivelli sociali, e naturalmente l’individuazione del modo di produzione.
Non è perciò sufficiente per una lettura di queste dinamiche il crinale fra ricerca scientifica e cosiddetta fantarcheologia; neppure quello fra archeologia colonialista e archeologia anticolonialista. L’industria culturale che si fa spettacolo, apparire ad ogni costo, gridare al ritrovamento sensazionale, produrre un flusso semi-inesauribile di scoperte, rinvenimenti, riletture radicali (quando serve con un velinaro al servizio) è un sistema comune nel quale i confini dei poli succitati scompaiono, dove colonialisti e anticolonialisti, scienziati e inventori di falsi e mezzi falsi stanno bene assieme.
Può persino arrivare – non è un paradosso, nell’orrore delle politiche pubbliche di investimento sulla cultura e dei loro tagli – qualche nuovo investimento: ricordo (tuttora non so se disperarmi o ridere), che qualche geologo mi confessò, chiedendomi discrezione, che se fossero partite le ricerche su una stupidaggine come quella dello tsunami atlantideo, almeno si sarebbe avuto qualche finanziamento utile per raccogliere dati generali , ahimè lesinato da irresponsabili politiche.
Il vespaio suscitato dell’ennesima sensazionale notizie dei ritrovamenti georadar a Mont’e Prama può essere letto entro i processi sopraindicati.
Dal punto di vista della tutela crea imbarazzo, o almeno mi auguro che lo abbia creato, che in una missione ufficiale che ha persino goduto di una – peraltro giusta – evidenza lincea, una sua componente ausiliaria enfatizzi i dati via stampa, dicendo da un lato di non rivelare altro per non favorire i tombaroli e dall’altro indicando, fra i tanti mirabolanti rinvenimenti (per ettari case a due piani, edifici, strade, fossati) persino tombe alte due metri. La trovo un’imperdonabile imprudenza (l’anno scorso a Mont’e Prama, per molto meno – l’inquadramento tipologico di un ritrovamento effettuato – fu messa dal Ministero la mordacchia agli archeologi).
Succede poi che questi lanci mediatici vengano ripresi e trionfalmente indicati come prova degli errori dell’archeologia ufficiale e dell’esistenza di città e di uno stato nuragici, ovviamente inevitabili (come la scrittura) e presupposte da tale statuaria. Mi colpisce molto che si possano avanzare certezze così importanti sulla base di notizie giornalistiche riguardanti anomalie vaste georadar, da interpretare, relative ad aree non ancora indagate scientificamente.
Forse è bene ricordare che i segnali georadar e le cosiddette ‘anomalie’ vanno tradotti archeologicamente: di per sé non parlano di una o più epoche. Per cui si pone un duplice problema: la conferma delle strutture ipotizzate dalla localizzazione e sequenza delle anomalie, che solo uno scavo scientifico potrà dare, e in secondo luogo l’attribuzione cronologica e culturale delle stesse.
Fatto complesso perché l’area di Mont’e Prama è pluristratificata, e oltre alla straordinaria realtà nuragica, dove una necropoli eroica si lega presumibilmente ad un impressionante santuario della memoria sarda, vi sono segni di successive presenze, anche sacre. Sicuramente di fase punica (con offerte votive riguardanti strutture santuariali) e successivamente romana.
Ma prima di dire che l’archeologia ufficiale ha sbagliato tutto (i suoi molti errori sono certi, e anche normali, e mi soffermerò in un prossimo contributo su questo discorso ormai centrale), e sostenere, su tali basi giornalistiche, che i nuragici avessero una civiltà urbana e statuale ce ne passa. E’ su questo genere di notizie, sicuramente interessanti ma che attendono conferme e interpretazioni, che si afferma questa rivoluzione? Sulla vastità dell’area? Sulle statue? Ci sono siti nuragici vastissimi già noti, il che non significa necessariamente configurazione urbana, e una bottega scultorea importante come quella che emerge a Mont’e Prama non è certo sufficiente a dare questa indicazione (o dovremo cercare una città per i mille Moai dell’Isola di Pasqua).
Giovanni Lilliu, che ha fatto molti errori ma a cui dobbiamo – in un’epoca scientificamente difficile e spesso in solitudine- straordinarie descrizioni, interpretazione e intuizioni archeologiche (ma per qualcuno è diventato storico dell’arte e narratore di una Sardegna inesistente) già dagli anni Settanta, con maggiore modestia di certe critiche, aveva riconosciuto che la presenza della grande statuaria lo portava a dover cambiare la valutazione di periferia mediterranea che lui stesso attribuiva alla civiltà nuragica. Lilliu disse, se non ricordo male, che in alcune realizzazioni insediative dell’età del Ferro si potevano cogliere premesse a possibili realizzazioni urbanistiche. Personalmente sono anche convinto che la città di Tharros potrebbe essere stata opera congiunta di fenici ed élites nuragiche. Ma nell’isola non si realizzò, in maniera caratterizzante per il mondo nuragico, un sistema e un modello urbano. Ahimè, non basta un desiderio ideologico di (anche comprensibile) rivalsa, e qualche pur vasto tracciato georadar ad affermare che i nuragici avessero una città e uno stato.
Il fatto è che Mont’e Prama sta purtroppo funzionando per ‘coppie oppositive’: alla lettura storiografica italiana dominante, che ha ritenuto la Sardegna periferia mediterranea, si deve opporre il contrario: quindi se il colonialismo ha detto a lungo che la Sardegna nuragica era periferia non urbana del Mediterraneo, e ha sbagliato per scelta politica e incapacità di strumenti di lettura, dovremmo dire che la Sardegna era al centro ed era urbana, al di là delle evidenze?
Sono convinto che per riscrivere la storia della Sardegna non serva capovolgere i dati della sua negazione, ma fare ciò che il colonialismo non è stato in grado di fare: leggere e interpretare la storia delle differenze, i luoghi, le integrazioni, le discontinuità anche interne. Le vere ragioni economiche e sociali di dominio, resistenza, omologazione. Una via per l’autodeterminazione e l’indipendenza della Sardegna dove si cerchi di reimpostare la necessaria rilettura e riscrittura storica su tali criteri e attenzioni ci darà risultati migliori, e avrà maggiori possibilità di non ripetere in altre forme le semplificazioni e gli abusi ideologici e culturali del nazionalismo dominante.
Da questo punto di vista lo scenario del Sinis, dove nascono la storia favolosa di Mont’e Prama, figlia di un grande bacino nuragico e la città di Tharros, è un grande banco di prova in grado, almeno mi auguro, di far saltare i vecchi schemi interpretativi ‘bipolari’ così funzionali all’ideologia e al consumo spettacolare dell’arte antica. Questo grazie alla complessità dei rapporti di scontro e di integrazione fra diverse realtà, fra le élites nuragiche sepolte nelle tombe fenicie e la nuova realtà fenicia, alla dura risistemazione dei luoghi portata dall’imperialismo cartaginese e poi, con modello ancora diverso, da quello romano. Altri grandi siti, come ad esempio quelli dell’Iglesiente e del Sulcis, per citarne solo alcuni, si affiancano al Sinis in tale ricchezza di problematiche.
Io direi in ogni caso di aspettare gli scavi e le successive elaborazioni scientifiche, e di prepararci naturalmente a grandi e credo anche impreviste novità.