Non c’è dubbio che negli ultimi decenni si sia registrato un aumento delle attenzioni al patrimonio culturale, e che ciò sia leggibile anche in nuove norme a garanzia dello stesso, legate alle discipline urbanistiche e del paesaggio.Un caso come quello del pozzo nuragico rinvenuto a Selargius, all’interno di un’operazione di pianificazione urbanistica, è certamente importante ma non insolito, per lo meno come presenza di documentazione archeologica sotto un luogo contemporaneo. Potrebbe essere oggetto di discussione, aperta e interessante, sul rapporto fra urbanizzazione e tutela e le procedure di documentazione e salvaguardia impiegate, invece di perdersi in confusionarie e offensive crociate ideologiche.
La conservazione delle testimonianze antiche e la maniera di operarla è sempre oggetto di scelta importante e complessa, di fronte alle esigenze contemporanee di organizzazione dei luoghi abitati. Quasi ogni intervento urbano deve tenere conto, e documentare, storie precedenti, essenziali da conservare e testimoniare, perché la crescita della memoria di un luogo rende migliore la nostra vita civile.
La città moderna e contemporanea ha spesso aggredito con molta durezza la documentazione archeologica, e le ‘regole della tutela’ come norma pubblica sono una conquista della modernità (le varie ‘occupazioni’ dei luoghi si sono sempre sovrapposte lungo la storia, ma oggi vediamo questo processo con spirito diverso). E’ talmente vasta la ricchezza del patrimonio riconosciuto e diventato pratica civile, che dovremo smontare tutte le città per lasciare emergere tutte le rovine precedenti: non è evidentemente possibile, anche se l’idea avrebbe un suo fascino e certe volte una sua giustificazione, se non altro per non vedere più certi orrori…
Diverse sono le tecniche, e le possibilità, di mantenere le informazioni, a seconda della ‘qualità’ del monumento, dalla sua leggibilità e capacità comunicativa alla relazione fra un suo possibile utilizzo e la scelta migliore per inviarci informazioni: direttamente visive, pienamente conservative, virtuali, ricostruttive, classicamente documentate, musealizzate etc. Volta per volta la scelta del grado di evidenziazione spaziale e informativa è dettata dalla diagnosi e dalle caratteristiche del ritrovamento, dalla sua natura, da una lettura e una scelta più generale. In ultima analisi dal modello di abitare e vivere che scegliamo di percorrere. Un mantenimento sottoterra non è per definizione negativo, se i dati sono recuperati bene e la forza per una valorizzazione en plein air (tema tecnicamente presente con numeri e qualità stupefacenti quasi ovunque nell’isola, ciò che porta alla necessità di scelte selettive) non è sufficiente.
In ogni caso, dall’insegnamento di Bianchi Bandinelli in poi, la focale va sul documento archeologico a prescindere dal suo pregio artistico; è connessa alla sua appartenenza e alla sua capacità informativa. Ed è anche per questo che nelle opere pubbliche e nella pianificazione urbanistica, grazie a leggi di accresciuta civiltà, operano cantieri come quello in corso a Selargius, condotti da persone competenti frutto di una formazione pubblica (che ora pare di moda dover indebolire).
Ma è scarsa l’abitudine a discuterne civilmente, c’è vero ritardo su questi temi. Forse anche per questo si urla, ed è magari un po’ di inesperienza archeologica quella che può portare, voglio pensare in buona fede, ad enfatizzare alla ‘Indiana Jones’ un pur importante monumento come un pozzo nuragico, da ritenere ben documentato e indagato dall’équipe di scavo.
Nel nostro caso quella che è un’azione normale della pianificazione di un luogo è quindi diventata azione di infuocata polemica. Ma non è inutile soffermarsi su di essa, perché le tensioni che esprimono sono più importanti del livello della polemica innescata da un ex-Presidente della Regione che forse si immagina – alla maniera di un suo vecchio riferimento – come Presidente Archeologo.
Emergono (nel caso specifico, ma dentro una tendenza più generale) una serie di dinamiche emozionali un po’ urlate, come prese in prestito da format televisivi di intrattenimento di spettacolo o politico (che, come sappiamo, sono sempre più spesso omologati) e dalle tecniche di ossessivo convincimento pubblicitario, oltrechè da certa filmografia archeologica; insomma un’enfatizzazione che non appartiene alla ricerca ma alla voglia di protagonismo, con strumentalizzazioni e un uso politico-ideologico dell’antichità (enfasi che talora, nella sua configurazione sensazionalista, viene percorsa anche da settori della ricerca ufficiale). Le caratteristiche prevalenti sono la centralità del dato emotivo, l’eccezionalità del ritrovamento, i toni accesi a volte conditi da una spruzzata abbondate di cultura new age (e varianti specifiche come in questo caso i fanghi atlantidei), il sostituirsi alle procedure di individuazione e lettura scientifica. Perchè la scienza, espressione dello Stato, non vede o non vuole vedere e ‘noi invece sì’, assieme al messaggio che è lo Stato, l’Italia, a nascondere la nostra storia.
Fatto complesso, quest’ultimo, che ha una sua verità profonda, legata al privilegiare le focali storiche del potere con la sua visione colonialista classicocentrica (in Italia, la versione romana); però la serietà del problema si dissolve, e indebolisce, nella crociata ideologica accompagnata da una sommaria e poco competente definizione della questione sollevata. Si parla di grandi ritrovamenti presentando foto di materiali sfocati e lanciando datazioni, si difende il patrimonio attaccando il lavoro degli archeologi, ai quali viene rimproverato (confondendo la legalità con lo statalismo) di aver detto che è un reato pubblicare foto da un cantiere in opera. Si dice che è bene rivelare subito i ritrovamenti nel corso di uno scavo, dimenticando che questo tipo di informazione, senza la valutazione di opportunità, e la necessaria mediazione comunicativa che soprattutto i professionisti che governano uno scavo possono stabilire, si configura come un rischio per la tutela e spesso diventa un favore agli scavatori clandestini, come sa bene chi lavora nel settore.
Si nota anche una certa traccia della ‘vecchia’ politica italiana, che inutilmente cerca di verniciarsi di nuovo con parole confusamente, o apparentemente, sovversive: come l’affermazione di voler eliminare le Soprintendenze, che qua non mi sembra tanto un afflato indipendentista, quanto una ben nota linea di cancellazione degli strumenti pubblici di tutela, per il paesaggio come per l’archeologia (abbiamo già visto nel suo lontano governo il memorabile operato dell’ex-presidente, a favore del patrimonio paesaggistico ed archeologico della Sardegna. E il silenzio sull’impressionante riduzione operata dei beni identitari, oggi che lui ne invoca la difesa, dal Piano Paesaggistico Regionale introdotta da Ugo Cappellacci e tuttora in vigore).
Chi ha a cuore il patrimonio archeologico della Sardegna, lo considera bene pubblico e bene comune, e nel contempo si batte, nella strategia di autodeterminazione dell’isola, per il trasferimento delle competenze sui beni culturali e di paesaggio, si deve porre la costruzione di strumenti non meno rigorosi di quelli dello Stato italiano.
Lo dico più direttamente: finché lo Stato non trasferirà, o non sarà costretto a trasferire, le competenze su tutto il nostro patrimonio, dovrà mantenere i suoi obblighi giuridici della tutela, che rimontano alla Costituzione, e noi dovremo pretenderlo. Diversamente si finisce dritti dritti nello schema tipico della destra contemporanea e dell’attuale governo: mollare competenze pubbliche alle periferie assieme al loro ‘peso finanziario’, in modo lo Stato se ne liberi e le periferie, soprattutto se governate dalla destra, le eliminino senza troppi problemi. A seguire (o assieme, come stiamo vedendo nelle politiche governative), largo a prestazioni sottopagate e al volontariato non come virtuosa sussidiarietà, ma come sostituzione del lavoro retribuito e competente. Insomma, si investa altrove.
A mio modo di vedere, chi vuole sinceramente una liberazione democratica della Sardegna non attacca il lavoro degli archeologi e la tutela del paesaggio, non se la prende con i suoi lavoratori, non pensa di saperne più di loro. E quei lavoratori servono alla mia liberazione: il lavoro cognitivo, con i suoi tempi di elaborazione scientifica, è un capitale centrale per investire sulla migliore risorsa donata dall’identità, e non può essere sostituito dallo scimmiottamento dei saperi come molti oggi, soprattutto (ma non solo) nell’archeologia, si stanno abituando a fare per ragioni non sempre limpide. Quell’imperdonabile cartello con il paragone con Isis, che vuole essere un’accusa grottesca e di cattivo gusto, si avvicina più ad una firma, quasi ad una provinciale confessione di appartenenza.