In questi mesi si è acceso (per modo di dire) il dibattito su Cagliari con il moto delle prossime elezioni comunali. Mi pare che la serie di proposte politiche sulla città di Cagliari (in linea più generale: cosa fare in una città) diano sostanzialmente per acquisita l’adesione al modello urbano esistente, non essendoci alcuna presa di distanza reale, se non attraverso razionalizzazioni interne al sistema.
Eppure una delle contraddizioni più interessanti e acute della storia contemporanea sta nel rapporto città-territorio, nel modo in cui la città esprime il luogo che occupa, da come essa lo ‘pensi’ e vi si rapporti. Il sistema globale in auge è impostato – con numerose varianti – sul predominio della città sui territori fuori mura, subalterni, spopolati o inglobati entro necessità di sviluppo urbano autocentrato e speculativo. Non mi pare che Cagliari si discosti in modo significativo da questo modello, opposto a quello basato – riduco in estrema sintesi – su rapporti di reciprocità non gerarchica dei luoghi all’interno di una data ‘regione urbana’.
Modelli urbani, letture territoriali e archeologiche
Dentro ogni modello prende senso compiuto, acquistando ruoli e svolgendo funzioni diverse, la realtà dei beni archeologici e dei suoi contenitori, reimpaginando a seconda dei modelli pratiche e obiettivi di intervento: dalla conservazione allo studio alla valorizzazione.
Il patrimonio archeologico di Cagliari – con diversi monumenti di rilievo e l’ampia documentazione, compresa quella, assai vasta, non immediatamente leggibile o fruibile – offre un osservatorio particolarmente interessante. In che modo è possibile pensarlo, ben oltre l’aspetto tipologico ed estetico, nella sua relazione coi luoghi? In che forme essa può manifestarsi? Quale rapporto stabilisce con il circuito museale? Il perimetro, anche in questo caso, può essere solo cagliaritano?
Il nucleo di maggiore efficacia nella valorizzazione di un monumento, accanto alle misure tecniche e professionali necessarie ad essa, è strettamente legato all’immagine e a ciò che vogliamo (ovvero selezioniamo) che debba prioritariamente trasmettere, naturalmente sulla base di dati scientificamente comprovati e non di fantasia. La sua carica semantica può essere assai più vasta e reticolare di quanto normalmente viene proposto. Sta quindi alla selezione operata dei messaggi previsti nel sistema di valorizzazione se vogliamo proporre dei monumenti come espressione di luoghi più vasti, e non solo di quello dove fisicamente risiede.
Qualche veloce esempio. Se proponiamo le tombe di Tuvixeddu, oltre a descrizione e inquadramento, per quanto accurate, stiamo parlando (della necropoli) di una città i cui esponenti punici andavano sino al tempio del dio Sid ad Antas, luogo di centrale identità sarda che stava ‘altrove’; una delle sue tombe, quella del ‘guerriero piumato’ è un’iconografia legata allo stesso dio. Ancora: se è difficile mostrare dirette documentazione del nuragico di Cagliari, il vicino tempio a pozzo di Settimo S. Pietro (Cuccuru Nuraxi) fa capire molte cose sia della forza nuragica sia delle relazioni con i fenici nel territorio vasto e in quello della città di Cagliari. Di relazioni che certamente interessavano Cagliari parlava il golfo, con il crocevia straordinario fra nuragici, cretesi, ciprioti e micenei nel nuraghe Antigori a Sarroch (sopra la sciagurata Saras).
Dare evidenza alle relazioni territoriali, sia per ragioni storiche, sia come modello di attenzione e valorizzazione permette di (ri)costruire racconti reciproci i quali, se ben elaborati, diventano inviti reciproci a conoscenza e visita. Da Cagliari bisognerà rinviare a Settimo e a Fluminimaggiore, da Fluminimaggiore e da Settimo a Cagliari.
Non si sottrae a questa (prima ed elementare) analisi di territorialità un punto di eccellenza del sistema museale sardo e urbano come il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. Non mi soffermerò in questa sede (non perché non siano rilevanti, ma perché tecnicamente presenti nei diversi modelli e approcci) su aspetti come la qualità di manufatti e della comunicazione, il numero dei visitatori, le articolazioni della biglietteria, forme di gestione, i servizi classici e quelli aggiuntivi come book shop e merchandising etc., per affrontare quanto prima delineato.
Si tratta di un Museo statale proveniente dalla storia di fine Settecento-Ottocento, con la nascita dei musei pubblici come luoghi di narrazione nazionale: in questo caso archeologica, centro di raccolta e mostra permanente di collezioni e scavi rappresentativi di luoghi diversi di tutta l’isola. E’ di per sé un museo ‘centrale’, ma è utile vedere se dobbiamo dare per acquisita tale centralità e polarità in un sistema di tipo classico, o capire se e come sia possibile l’adattamento del suo profilo alla nuova dimensione territoriale basata sui luoghi e il racconto di rete degli stessi. La pur importante evoluzione verso il territorio del ruolo del museo contenuta in studi e direttive ministeriali degli ultimi quindici anni, riflessa anche nelle normative regionali, come la L. R. 14/2006, è ancora di tipo puntiforme e non ‘territorialista’ (si osserva in ogni caso che i dati ufficiali statistici indicano la nostra isola come il territorio a più alta concentrazione di parchi/aree archeologiche in tutto lo Stato italiano).
Un museo ‘antologico’ e ‘nazionale’ serve molto (d’altronde un programma di indipendenza della Sardegna non può non prevedere un museo della storia dell’isola, e per certi versi si tratta alla lettera di un museo archeologico nazionale…), ma è fondamentale capire e scegliere se vogliamo un museo che racconti un territorio come porta d’ingresso o come riepilogo in sé concluso; se possa servire luoghi, visioni e politiche culturali non centraliste. Decidere quindi di puntare su un diverso assetto del territorio basato sulla centralità (della rete) dei luoghi e dei beni comuni rispetto al modello della città (e della nazione) dominante porta alla necessità di un riposizionamento funzionale dello stesso museo cagliaritano.
Un segno di tale tensione è emerso nella questione Mont’e Prama, a cui si legava (cliccate per il link) l’appello non solo sardo promosso e sostenuto da cittadini e studiosi contro la divisione delle statue fra più musei, poi in due musei. La scelta a suo tempo operata di esporre nel museo cagliaritano i manufatti ‘più rappresentativi’ delle tipologie di Mont’e Prama, oltre che obbedire ad una logica selettiva di matrice antiquaria, indeboliva la funzione di ‘porta’ verso il territorio, ovvero la declinava in modo centralista rispetto ai musei civici. Parallelamente alla funzione gerarchica di ‘Città capitale’ rispetto alle periferie territoriali (resta poi la necessità di ben altro assetto e dinamismo dei musei civici afferenti al circuito regionale, di altre politiche comunali).
Un aspetto utile al nostro discorso è la rilevantissima quantità di reperti ospitati dal Museo di Cagliari provenienti da numerose località della Sardegna, e quelli che tuttora giacciono inediti dei magazzini.
Ciò potrebbe condurre a un ben più distinto potenziamento (rispetto a quanto sinora operato) delle esposizioni dei Musei Civici di tutta la Sardegna, favorendo la nascita – alla condizione fondamentale di standard qualitativi già disponibili – di nuove unità museali, e quindi nuova forza dei singoli luoghi e delle loro reti, oltrechè potenziare ovviamente il sistema regionale dei Musei. Si tratterebbe di conferire ai luoghi i manufatti presenti (in copia a regola d’arte o in originale), e soprattutto avviare campagne di ‘scavo nei magazzini’ con studio degli inediti, in quantità davvero copiosa e a volte in condizioni di crescente degrado, da configurate come cantieri: fonte possibile di lavoro molto qualificato e socialmente di valore eccezionale e irrinunciabile (voglio anche ricordare che noi archeologi e storici dell’antichità lavoriamo su generalizzazioni che potrebbero godere di una base dati assai più grande, e che la grandezza dell’inedito rende talora precaria e insidiosa ogni generalizzazione). Lo scavo di magazzino è una priorità assoluta per l’archeologia e l’identità della Sardegna. I quarant’anni di attesa per Mont’e Prama sono solo la punta dell’iceberg.
I reperti inediti potrebbero perciò rientrare restaurati, studiati, quindi compresi nei territori d’origine dove la loro storia si è formata e conclusa, legandosi a nuove e più forti reti di valorizzazione. Sono questi i nostoi dell’archeologia della Sardegna, i veri ritorni, non le patacche speculative provenienti da torbidi meccanismi di mercato clandestino. La ricostruzione generale delle identità dei luoghi costituirebbe una politica nella quale il lavoro sarebbe una dimensione importantissima, coinvolgendo positivamente la filiera professionale di conoscenza e valorizzazione: archeologi, restauratori, gruppi di gestione, guide turistiche.
Il Polo Museale Regionale (dello Stato)
Poco meno di una ventina d’anni fa, alle origini della cosiddetta ‘devolution’ istituzionale (vedi le diverse versioni della ‘Bassanini’) si pensò persino di trasformare i musei nazionali/statali in musei comunali. Non solo non se ne è fatto più nulla, ma oggi si rischia un’inversione di rotta. Il circuito regionale è ora attraversato dal nuovo assetto del MiBACT (Ministero Beni Attività Culturali e Turismo).
Nel ridisegno del panorama museale statale regolato dal DPCM n. 171 del 29 agosto 2014 sono stati istituiti (art. 34) i ‘Poli Museali regionali’ (formalmente organi periferici del Ministero, art. 31), e quindi un Polo Museale della Sardegna, da non confondere con quello di pertinenza della RAS…..
Si conferma ovviamente come la Sardegna sia una regione periferica neppure autonoma: basta leggere al comma 3 dove si dice che i ‘poli museali regionali’ sono non più di 17 e operano in una o più Regioni, ad esclusione delle Regioni Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta!
Se pensiamo che i poli museali della Regione Sardegna, delineati nel 2006, hanno avuto diverse definizioni e modifiche, che la legge appena citata definisce fra i 17 poli museali il ‘Polo Museale della Sardegna’, che si auspica la collaborazione fra i due sistemi e che si prevede la creazione di altri poli museali, la confusione possibile sembra molta e piuttosto polare.
Dal testo della legge mi pare in ogni caso che emerga l’idea del Ministero di essere a capo della gestione dell’archeologia del territorio, compresa la valorizzazione, nonostante musei e aree a gestione non statale siano decisamente superiori nell’isola rispetto a quelli statali (in rapporto circa 1:20). I Poli Museali infatti (art. 34) “ Assicurano sul territorio l’espletamento del servizio pubblico di fruizione e di valorizzazione degli istituti e dei luoghi della cultura in consegna allo Stato o allo Stato comunque affidati in gestione”(…) “provvedendo a definire strategie e obiettivi comuni di valorizzazione, in rapporto all’ambito territoriale di competenza, e promuovono l’integrazione dei percorsi culturali di fruizione e, in raccordo con il segretario regionale, dei conseguenti itinerari turistico-culturali.”
Semplificazione e più spiccato centralismo persino interno, in barba alle realtà territoriali, come ha mostrato la cancellazione della Soprintendenza Archeologica di Sassari e Nuoro. Vi è sconcerto e disorientamento, anche all’interno dei quadri professionali così ‘svalorizzati’ in quelle sedi. Spero che le professionalità esistenti non debbano in qualche modo dover operare in tentativi di revanche centralista, che per la verità non stupirebbero nel quadro generale di riaffermazione che mi sembra operante, su nuovi piani, del potere centrale e della sua mentalità operativa e organizzativa.
Non sappiamo come ‘risponderà’ la Regione a questa sfida (il suo grado di autonomia non autorizza finora a grandi ottimismi). Se l’obiettivo minimo è quello di non indebolire intanto le attuali competenze del rilevante circuito museale della Regione Sardegna e di agire in modo che esse non vengano assorbite – pur auspicando nell’interesse del nostro territorio ottime e virtuose azioni comuni – dalla pianificazione statale, servono nuove politiche e strategie, finora assenti in modo desolante. Ed è essenziale che ogni incremento del bacino museale e delle aree archeologiche attivate si basi su una valorizzazione reale dei luoghi del territorio con la creazione di lavoro qualificato e professionale (evitando un uso sostitutivo, invece che sussidiario, del volontariato, come traspare spesso nelle attuali politiche ministeriali).
Come si è visto, si può iniziare anche discutendo di una città, oltretutto importante come Cagliari, per cogliere le nuove possibilità democratiche e funzionali date dalla valorizzazione più generale del territorio costituito dai luoghi e dai relativi beni comuni (una delle ragioni forti della sua sconfitta come ‘Capitale europea della cultura’ sta nell’assenza di una visione territoriale democratica, bella e aperta).
Conviene pertanto operare da subito, a Cagliari e in Sardegna, per spostare in ottica territorialista gli assetti centralisti e le politiche dei beni culturali. Non sappiamo se e quando avverrà un reale passaggio di competenze dallo Stato italiano alla Sardegna sul patrimonio archeologico e quello museale, che auspico e per il quale ho già combattuto, ma un trasferimento che riproduca ottiche centralistiche non mi piacerebbe e non cambierebbe più di tanto la situazione. E’ perciò opportuno iniziare da subito a lavorare in tale direzione, costruendo una politica di emancipazione che metta in discussione radicale gli assetti attuali.