La discussione nata attorno alla statua di Carlo Felice a Cagliari, che alcuni vorrebbero rimuovere in quanto simbolo dell’oppressione piemontese e di una specifica negatività della persona, pone un problema ben conosciuto storicamente. La storia dell’uomo, e dell’archeologia, è fatta di elementi smontati e riutilizzati in epoche successive alla loro produzione, a volte utilitaristicamente
ma in ogni caso con implicito disconoscimento di un valore ideologico o di una funzione comunque culturale; di distruzioni, occultamenti, o semplice rimozione dei segni di precedenti fasi storiche non più condivise. Fino alla ben nota ‘damnatio memoriae’. Nasi e occhi sfregiati in statue egizie, assiri che distruggono santuari di Urartu, iscrizioni scalpellate, divinità smembrate, elementi edilizi antichi, anche preziosi, impiegati come banali setti murari. L’impressione forte proveniente da alcune fratture anatomiche delle statue di Mont’e Prama è che ci sia stato un volontario accanimento, uno sfregio, contro di esse. A Tharros in età romana le stele puniche furono riutilizzate per fare muri, come si può vedere nell’area del tofet. In una tomba di giganti di Nurallao l’esedra mostra statue-menhir di epoca precedente. Santa Madre Chiesa ha edificato diversi luoghi di culto sopra nuraghi e relativi villaggi.
La modernità ci ha portato, con sviluppi di grande pregio per la cultura europea e mondiale, la concezione, progressivamente affermatasi, che le stratificazioni e i corrispondenti contesti storici e monumentali (riflesso dell’organizzazione dello spazio operata dal potere di turno e di relazioni con le frasi precedenti), vadano mantenuti e tutelati anche se non collimano con le nostre convinzioni. E’ una ragione forte capire come la storia che ci ha preceduto costruisca coscienza mediante la conoscenza, si espliciti e diventi leggibile nei luoghi quando in essi si esprimono, come dicono le leggi di tutela, manifestazioni ‘di importante interesse’ e ‘testimonianze avente valore di civiltà’. Anche se quell’opera non la apprezziamo e quella civiltà ci appare nemica, o è addirittura di un oppressore.
Una trentina d’anni fa un grande archeologo tunisino, M’hamed Hassine Fantar, mi raccontò in maniera nitida, e illuminante, come la sua identità di africano si formasse in una mescolanza inscindibile di culture dominate e dominanti, fra identità maghrebine e conquiste cartaginesi, romane e arabe, sino a quelle francesi. E che l’opera dell’archeologo e dello storico, ma ancora di più del cittadino africano, dovesse reperire, documentare e includere, senza rivalse, tutti i messaggi culturali diventati ‘passato’, pure quelli combattuti o non condivisi.
La comprensione che ciò che è passato significativo non si cancelli e vada protetto è qualcosa che oltrepassa la tolleranza: è caratteristica e pregio della democrazia moderna non distruggerlo ma farlo capire, presentarlo, se sono mature, con nuove letture e rinnovate critiche, dirette e se è il caso (questo lo è) feroci.
Abbiamo visto in questi anni durissimi riemergere sotto i nostri occhi, in forme nuove, le succitate pratiche distruttive premoderne (a sfondo religioso, e anche il nazionalismo può esserlo) verso testimonianze culturali attribuite, talora apparentemente non a torto, a sistemi oppressivi. Squarci di una visione arcaica del mondo che riappare, unita in maniera esplosiva alle dinamiche storiche ed economiche dell’attualità. In questa visione, pur nella differenza di toni, non mi ritrovo e non mi voglio ritrovare.
Una valutazione storica profondamente negativa sul dominio piemontese e Savoia non può quindi essere motivo sufficiente a cancellare la conquista del ‘tenere’ nei luoghi le varie testimonianze della storia e difenderle, frutto di un pensiero della tutela dalle premesse articolate, anche antiche, con un percorso europeo che va dall’illuminismo al viaggio, dalla scuola antropologica inglese (con il suo concetto di survival-sopravvivenza) all’archeologia stratigrafica.
Le leggi della tutela che riconoscono il valore pubblico di ogni testimonianza storica non sono oggetto di rinuncia, almeno per me. Accenno solo di passaggio che le modificazioni urbane devono essere condivise e portate a maggioranza (ciò che non vedo) attraverso gli strumenti del governo urbano, e che serve riflettere sul fatto che una legge non possa venire elusa, neppure a maggioranza. Almeno senza una modifica della stessa. In quale direzione? Spero non quella di un sistema ‘giuridico’ nel quale sia consentito togliere ed eliminare i monumenti e le testimonianze di epoche e sovrani che non ci piacciono, che riteniamo nemici; che sono stati, anche oggettivamente, oppressori, che hanno espresso rappresentazioni del potere (resterebbero a ben vedere pochi monumenti, almeno di sfera pubblica ma anche di gran parte della sfera privata). Una nuova normativa nella quale la salvaguardia del contesto, spesso pluristratificato, non agirebbe sul paesaggio culturale complessivo (urbano o extraurbano) ma solo verso i beni culturali delle epoche che ideologicamente preferiamo. A questo punto non avremmo che l’imbarazzo della scelta, dal dominio piemontese a quello aragonese, da Cartagine a Roma (qualcuno pensa anche i nuraghi). Senza trascurare naturalmente quei proto-Romà prenuragici che giravano per l’Europa, e anche nella nostra isola, con bicchieri e ciotole campaniformi.
Delle città che dovremo imparare a leggere e ri-scoprire dobbiamo seguire con molta attenzione la spesso straordinaria stratificazione. Ogni contesto è caratterizzato da quadri specifici di spazi, edifici e manufatti; sistemi urbanistici, toponimi, statue, frequenze, tragitti. Sono cose che stanno assieme. Portare la statua da un’altra parte mi sembra un ‘rimedio’ persino peggiore…
Trovo insomma che una politica per la Sardegna, a maggior ragione quella che vorremmo rendesse concreta e storica l’autodeterminazione dell’isola e la sua indipendenza, meriti strumenti migliori della damnatio memoriae e possa mostrare la forza democratica di un movimento di liberazione senza rinunciare alla cultura moderna della tutela e dell’inclusione, facendone strumento di governo diffuso del territorio; evidenziando la propria qualità culturale e democratica non con la rimozione o l’occultamento della storia degli altri, ma riscoprendo i segni storici nascosti e negati senza invenzioni fantastiche, producendone di propri; costruendo strumenti rinnovati di lettura storica generalizzandoli nella scuola e di lì alla divulgazione, all’accompagnamento e alla guida professionale nei luoghi.
La rimozione di una statua, come del nome di una piazza o di una via che storicamente nasce in quell’epoca e con quella cultura, mi sembra, ben oltre che un reato contro le norme di tutela, un errore culturale e politico molto serio, un segno di debolezza.
Un superiore segno di forza e vera egemonia sarebbe, come già osservato, saper costruire una competente rilettura della storia senza enfasi né falsificazioni nè etnocentrismi. Poter narrare anche le malefatte dei Savoia in Sardegna, le devastazioni ai boschi dell’isola, la follia delle chiudende, cattura, persecuzione e tortura dei sardi ribelli; il racconto riscoperto in testi sino a nuove targhe di accompagnamento alle statue (misure a mio parere molto più efficaci).
Non credo per fede alla frase ‘historia magistra vitae‘: tale magistero dipende da meno impersonali maestri. Ma sicuramente sarebbero percorsi importanti anche per capire le mazzette in ottavo, con qualificata rappresentanza istituzionale della Sardegna, al fine di aggiustare proprio la vecchia ‘Carlo Felice’.
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