Il progetto di riforma costituzionale che voteremo a ottobre non riguarda solo il Senato e il sistema elettorale. Riguarda il governo democratico del territorio. Il nucleo è individuabile nel forte incremento della titolarità delle competenze (con eliminazione di quelle ‘concorrenti’) a favore dello Stato, solo apparentemente temperata, in uno strano regionalismo asimmetrico, dalle norme sulle Regioni a statuto speciale..
La materia che riguarda i beni culturali (proverò a dare una lettura su questo aspetto) non è di rilievo secondario, poiché essa riveste un interesse molto specifico per il peso che la sua organizzazione ha nella tutela, nei lavori pubblici e nel complessivo governo del territorio. E’ uno degli ambiti fondamentali per costruire uno sviluppo sostenibile in grado di proteggere e non distruggere – facendone anche ‘segno di mercato ‘ – i valori ambientali e la biodiversità (la intendo anche nel campo delle culture), assieme alla costruzione di nuove realtà e possibilità lavorative.
La riforma costituzionale indica anche in questo campo una netta direzione centralista. L’art. 117 ci mostra che, tra le materie di competenza esclusiva dello Stato, alla tutela dei beni culturali si aggiunge la valorizzazione degli stessi (prima era fra le materie di legislazione concorrente). Le Regioni avranno potestà legislativa “in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale”, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici.
Sintetizzo: la tutela e la valorizzazione dei beni culturali sarà dello Stato, mentre le Regioni, all’interno di tali indirizzi e scelte, potranno intervenire su piani subordinati della valorizzazione, ovvero sulle attività culturali e la relativa promozione. Credo che non si tratterà, per quanto riguarda lo Stato, di linee generali, ma della costruzione (già in atto da tempo) di organismi ben finanziati che interverranno direttamente in nome e per conto dello Stato, insidiando le scelte dei territori, le possibilità del lavoro professionale indipendente e di assegnazioni trasparenti, assieme ad un uso, che già si vede, scriteriato e sostitutivo del volontariato, gestito da politica e finanza di peso, potenti fondazioni e ricche dame di carità. Aggiungo, tornando alla supposta semplificazione dei piani di potestà esclusiva/potestà concorrente tramite l’eliminazione della seconda, che essa riappare in diversi punti con problematicità superiore al passato (si veda ad esempio la dizione “per quanto di interesse regionale’). Ma vi sono anche problemi terminologici. Apparentemente chiari, lo sono di meno rispetto a impieghi normativi. Cosa intendere per subordinate come ‘attività culturali’ e ‘promozione’? Se per attività culturali ci si dovesse riferire a quel patrimonio di beni della contemporaneità non soggetti a vincolistica (come nella riforma del Ministero, e del suo nuovo nome, attivo dal 1998 con il D. Lgs. 368 del 20 ottobre), la sub-materia in capo alle regioni non riguarderebbe tutti i beni del passato. Ma sembra che il legislatore intenda un ‘generico’ fare attività nel campo della cultura. Quale sarà il confine entro il quale la promozione non sarà valorizzazione? Se la valorizzazione è in capo allo Stato, chi dovrà reperire e gestire fondi con sponsor o altri sistemi? Tale indeterminatezza, e l’impiego di riferimenti non univocamente interpretabili sono destinati ad aprire diverse tensioni di lettura costituzionale.
In ogni caso, resta allo Stato (laddove ci fossero iniziative troppo autonome) la Clausola di supremazia (art. 117, quarto comma) che “consente alla legge dello Stato, su proposta del Governo, di intervenire in materie di competenza regionale a tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o dell’interesse nazionale.”.
La situazione si differenzia per le Regioni a Statuto speciale: le precedenti attribuzioni ‘concorrenti’ restano fino a revisione degli Statuti, ed entra in gioco la possibilità, mediante quanto indicato dal terzo comma dell’art. 116, di stabilire un regime diverso di competenze nel campo della tutela e della valorizzazione dei beni culturali. Ciò potrà essere determinato da azioni comuni di Stato e Regione: vi è il principio della ‘previa intesa’ che obbliga ad un accordo preventivo fra Stato e Regioni autonome per i contenuti di revisione degli statuti, e votazione bicamerale. La Clausola di supremazia non si applica. Ma le indicazioni dell’art. 118 su come e su che basi realizzare ‘governi condivisi’ del territorio sono davvero deboli.
Situazione sulla carta più favorevole per le Regioni a statuto speciale? La realtà appare almeno nebulosa, forse diversamente inquadrabile…. : non sarà applicabile la ‘clausola di supremazia’, ma sono presenti nei vecchi statuti speciali norme che vincolano gli stessi al superiore interesse nazionale (leggasi ovviamente italiano). Il regime ordinario intanto è fortemente centralista, in attesa di definire spazi maggiori di autonomia in regioni strettamente controllate politicamente (e, devo dire, da parte di una classe politica scoraggiante e molto integrata con quella centrale) grazie a meccanismi di rappresentanza sempre più lontani dalla democrazia. Sarebbe stato politicamente più complicato e meno intelligente attaccare direttamente le Regioni a statuto speciale: meglio allora partire da quelle ordinarie e sistemare progressivamente il resto; trattare le ‘specialità regionali’ con maggior forza centrale e una classe politica assai addomesticata nella sua capacità espressiva della rappresentanza.
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Questa ‘svolta’ centralista appare come una ‘novità’ perché interpreta esigenze attuali del potere politico, ma è anche un ritorno interessante. Un pezzo importante dello schema si trova nella ricca e complessa discussione dell’Assemblea Costituente del 1947.
E’ bene ricordare che il tanto richiamato art. 9 della Costituzione (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”) fu il frutto di una discussione molto serrata, nella quale stava prevalendo la dizione ‘Stato’ espressa da posizioni fortemente antiregionaliste come quelle dell’azionista Codignola e del comunista Marchesi, e le proposte di quest’ultimo con Aldo Moro, ambedue responsabili del gruppo di lavoro dei ‘75’ dedicato alla questione beni culturali .
Il termine ‘Repubblica’, in luogo di ‘Stato’, fu introdotto da un emendamento finale di Emilio Lussu, interprete in quella discussione delle più avanzate sensibilità territorialiste ed autonomiste (un fatto che trovo decisamente istruttivo è che molti che richiamano l’articolo 9 della Costituzione leggono Repubblica e pensano Stato).
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All’inizio si faceva cenno alla necessità di leggere questa riforma assieme ad altre leggi e misure già in atto, di rilevante peso: pensiamo perciò allo ‘Sblocca Italia’, agli interventi sull’uso del suolo, ai ripetuti tentativi di deregulation delle Grandi Opere, alla fortissima compressione dei beni identitari (e anche di quelli archeologici) nelle normative delle pianificazione regionali e quindi nei PUC. Da ultimo, alla controversa e profonda riforma del MiBACT. Quest’ultima non sembra occuparsi di regionalismo differenziato o asimmetrico ed è (pur a fatica) operativa; ha infatti creato proprio nel campo della valorizzazione norme che consentono allo Stato, attraverso i Poli Museali Regionali MiBACT, di governare, o almeno di provarci, i circuiti regionali costituiti da musei e aree non statali. In Sardegna un Polo statale composto da tredici musei e luoghi della cultura potrebbe coordinare un sistema museale di competenza regionale di circa duecento unità: il rischio appare forte anche a causa della mancanza di iniziativa della Regione Autonoma. In compenso la Sardegna, Regione Autonoma e portatrice di un monumento Unesco come Su Nuraxi di Barumini, non ha neppure un istituto di autonomia speciale.
Per concludere, una ‘riforma costituzionale’ che mette talmente in discussione, assieme alla Costituzione, la natura del nostro vivere nei luoghi non ha avuto il dibattito territoriale che meritava. Nulla appare di quanto di nuovo è emerso in quella vicenda complessa di oltre mezzo secolo che va dalla discussione della Costituente ai cambiamenti sociali e culturali della fine degli anni Sessanta del Novecento, dall’istituzione delle Regioni alle competenze territoriali ridefinite con nuove idee e concezioni di cultura e paesaggio, sino allo sforzo di interpretare e governare i luoghi con la dottrina dei beni comuni e la relativa democrazia avanzata. Forse perché Statalismo e Regionalismo, che non hanno dato bella mostra di sé, sono stati mossi da una cultura comune.
Dietro non trascurabili istanze di efficienza e di risparmio pubblico, assieme al tentativo di risolvere incongruenze e contraddizioni della devolution targata 2001 (aggiungo: soprattutto dei soggetti attuatori…), la ‘riforma’ conduce, in linea con dinamiche globali più generali, ad una secca contrazione della democrazia, della partecipazione diretta e della capacità di rappresentanza della delega. Vi è una fortemente accresciuta capacità di controllo della classe politica elettiva che si fa, con più forza, Stato, con una gestione centralizzata politica e finanziaria di cultura e turismo. Il quadro è quello di un modello di regionalismo differenziato dominato da un potere molto forte della classe politica centrale.
Le strategie generali su beni culturali, paesaggio e turismo saranno decise dal centro dello Stato e dalla politica italicata. I prefetti vigileranno sulle intemperanze dei lavoratori. Il paesaggio sarà con meno difficoltà devastato dalle grandi opere di interesse nazionale, non riducibili a tutela..
Lo sviluppo locale, la società dei beni comuni e l’autodeterminazione stanno da un’altra parte. Come, io credo, la maggior parte della Sardegna.
Trovo importante che questa alterità e irriducibilità vengano espresse, al momento del voto, respingendo la riforma con un NO assai partecipato.