C’è una relazione fra due punti di scontro (e confronto) che animano il dibattito in Sardegna in questi giorni in Sardegna: la megacentrale solare termodinamica autorizzata a Gonnosfanadiga dal Ministro dell’Ambiente italiano Galletti e la spiaggia di Porto Ferro per la quale il Piano di Utilizzo dei Litorali (PUL) proposto dal Comune di Sassari prevede tre stabilimenti balneari.
Sono due punti interessanti che hanno una relazione importante. Se il primo riguarda l’esproprio neo-coloniale del territorio sardo, seguendo la pratica storica antica con un’aggiornata modalità di accaparramento della terra a fini privati di altra natura (magari mascherati da pubblici) chiamata Land Grabbing, il secondo mette in evidenza un nodo che riguarda, apparentemente non in modo diretto, il primo: cosa fare delle nostre terre oltre la pratica puramente misurativa di aree e cubature legata al concetto ‘tradizionale’ di territorio, entro una strategia più generale che superi tale concezione e sappia caratterizzarlo nella natura plurale, ‘bio-paesaggistica’, dei luoghi che rendono il territorio identità attraverso la loro ‘anima’.
Ciò che costruisce in maniera forte la relazione fra i due punti è che il paesaggio, con i suoi densi e articolati aspetti culturali, naturali e produttivi e la sua rete dei luoghi, può rappresentare il mezzo di produzione principale della Sardegna – di cui i sardi devono entrare in possesso – e costruire un alternativa ai modelli industriali e coloniali purtroppo sinora prevalenti.
Ecco quindi l’utilità di battaglie ‘contro’ per opporsi all’uso predatorio delle nostre terre; e assieme la necessità, che trovo molto urgente, di progettare un nuovo sviluppo (termine legato così spesso a una dimensione ineluttabilmente costruttiva di ‘solidi volumi’ sui luoghi, ma può essere inteso diversamente da essa) del nostro comune futuro.
Da questo punto di vista la ‘questione Porto Ferro’, luogo di altissima qualità paesaggistica nonché Sito di Interesse Comunitario (S.I.C.) , non può ridursi e quindi semplificarsi in un sì oppure un no agli stabilimenti balneari (comunque da respingere radicalmente: su questo rimando da ultimo ai brevi e recenti scritti mio e di Stefano Deliperi sul ‘manifesto sardo‘, e soprattutto alla forte mobilitazione dell’appassionato e competente Comitato Giù Le Mani da Porto Ferro), ma entra nelle scelte più generali e nella filosofia su come la qualità paesaggistica della Sardegna possa essere impiegata saggiamente come risorsa produttiva. La qualità e la… quantità qualitativa sono infatti assai elevate. Sono davvero molti, in maniera forse impareggiabile, i luoghi con tali caratteristiche, tanto da costituire potenzialmente la carta principale che la Sardegna può spendere nel mercato del tempo libero. Perciò devono essere rigorosamente protetti e proposti senza appannare le loro caratteristiche, in modo da mantenere sia il loro, e nostro, patrimonio identitario, sia la forza della fascinazione. La Sardegna può prevalere nel mercato più generale – dove già la domanda la identifica come orizzonte diverso a quello ‘adriatico’ – proprio in questo modo, generando ricchezza da un paesaggio che propone identità e tradizioni, dalla cui difesa organizzata traggono forza, ad esempio, le qualità delle produzioni destinate all’alimentazione e ai servizi. Dove possiamo costruire lavoro qualificato e strettamente connesso al ‘capitale cognitivo’.
Porto Ferro è un luogo magnifico che – assieme ad altri – pone una sfida alta e complessa; essa pretende ben altra valorizzazione che l’inserimento di qualche centinaio di sdraio e ombrelloni: al di là del merito e delle convinzioni, sarebbe davvero un volare basso, solo apparentemente reversibile, perché non si tratta solo di materiali virtuosi di sdraio e strutture come diligentemente indicati: ci parla di una reversibilità che non riguarda solo oggetti tangibili di tela e legno, ma la sfera del bene immateriale…. E’ perciò opportuno, in maniera rispettosa del suo carattere, inserirlo in un sistema più generale con la sua forte immagine ‘selvaggia’, pensare questo speciale tratto del paesaggio costiero nord-occidentale della Sardegna, con le sue torri e le storie della mitica Nure, in un contesto di corretta alternanza fra spiagge libere attrezzate – la cui percentuale deve essere rilevante, come è noto – e stabilimenti balneari. Esso può quindi rappresentare uno dei ‘pochi’ grandi siti ‘conservati’ senza ombrelloni, con tutela aumentata, che qualifichi in modo positivo il paesaggio sardo, la sua fruizione e la sua percezione. Da questa configurazione credo che si possano trarre e produrre alti e migliori valori economici, con piena sostenibilità ambientale, che quelli realizzabili con qualche concessione balneare.
Nel convegno del 18 marzo a Sassari anche di questo si dovrà tenere conto e discutere.
La puntata successiva sarà – nella costruzione di una battaglia decisa per la difesa dei beni comuni e dell’autogoverno democratico delle nostre comunità – la questione di Gonnosfanadiga, animata da un numero rilevante di comitati e con la necessità di ribellarsi giustamente, con fermezza e civiltà collettiva, al progetto d’impianto termodinamico della Gonnosfanadiga Ltd. (ricordo gli incontri nel 2016, del 2 luglio e del 3 settembre, la preoccupazione ahimè reale per il pronunciamento del Ministero dell’Ambiente italiano. Ora l’appuntamento, irrinunciabile, sembra previsto per il prossimo 25 marzo; mi riservo eventualmente di modificare la data, se sarà necessario, in queste stesse righe).
Anche questa battaglia è da legare ad una riflessione sul paesaggio come identità, risorsa e mezzo di produzione centrale di una Sardegna in grado di scegliere il proprio destino, con sovranità sui propri luoghi; che reagisca subito e con forza alle nuove usurpazioni neo-coloniali servite da un governo e da un ministro assai poco ambientali, quest’ultimo già venuto in Sardegna a sostenere il delirante progetto della cardocentrale di Eni e Novamont a Porto Torres.