In un lavoro costruito nella didattica fra il 2005 ed il 2007 con i miei studenti, che ricordo ancora con piacere e divertimento, attraversammo per anni le regioni del kitsch; tra il serio, lo scientifico ed il divertente – ciò che nelle nostre didattiche è di importanza fondamentale – provammo ad analizzare le tante sfaccettature del fenomeno (sbrigativamente definito da alcuni come
‘produzione di oggetti di cattivo gusto’, o, con lettura più organica, processo sociale di inflazione dell’attività estetica nella società dei consumi di massa, legato alla ‘riproducibilità’ dell’opera d’arte: con forme artistiche secondarie, prive di autenticità, ma che soddisfano un bisogno, come dimostra l’esplosione di paccottiglia, torri di Pisa, nanetti da giardino, nella via verso il neo-kitsch. Si vedano ad esempio gli scritti di Clement Greenberg, Abraham A. Moles e Gillo Dorfles).
Provammo a studiare il caso sardo, e fu un’esperienza indimenticabile: ognuna portava qualcosa da casa sua e da quella di familiari e amici, e potemmo costruire velocemente una performance, prima nella nostra Accademia, in un ‘notte bianca’ sassarese, poi nel Palazzo della Frumentaria a Sassari: fu chiamata Itte Kitsch, un salottino ornato di quadri di sughero e manifesti del Cagliari campione, servizio di boccali con nuraghe a rilievo e fiero sardo armato di lunghissimo schioppo, pelle di pecora come tappeto.
Trovammo persino un piccolo pianoforte di sughero con scritto ‘Sardegna’. Sottofondo musicale la musica di Serafino Murru, usignolo di Sardegna nell’indimenticabile mutu in italiano dedicato a Gigirriva e al Cagliaricampione.
La mostra fu un successo. Ma la vera misura di tale successo fu data da quel visitatore che si sedette in una poltrona e disse: mi sento a casa mia. Per noi dolore e risate lancinanti compresse, quasi da autoflagellazione…
Ne venne un messaggio che si formò nel corso del lavoro collettivo: l’inizio del turismo di massa dopo gli anni Sessanta come terminus post quem (boom economico, Costa Smeralda, consolidarsi dell’emigrazione) per la fioritura del kitsch sardo, l’oggetto del ricordo per turisti ed emigrati (ricordo teneramente mia madre, grande metafora popolare, ad arredare il nostro salotto buono di emigrati con minibisaccine, cartoline, sugheri di ogni genere e specie); il legame artificiale eppure reale coi luoghi, l’emergere di iconografie prevalenti legate all’archeologia, al paesaggio, a pecore e pastori.
Molto in sintesi queste le conclusioni (mentre gli studenti si lanciavano in altre ricerche sul sexual kitsch, sul kitsch alimentare, sul kitsch delle copertine etc): oggetti e attitudini sardo-kitsch, immagini riflesse della traversata turistica e del ricordo emigrato, fanno emergere desideri e semplificazioni autoriflettenti, ci liberano dalla fatica dell’interpretazione e puntano dritti al cuore, dalla Carlo Felice al West (Sante Maurizi aggiunse riflessioni importanti, di fatto un arricchimento inaspettato e prezioso, del lavoro comune, nell’articolo qua linkabile). E la proposta di una ‘costante’ o ‘legge’: dove c’è kitsch non c’è solo riproducibilità estrema, industria, serialità spinta. C’è il segnale di un vasto patrimonio culturale e paesaggistico (qualcosa del genere lo aveva intuito Greenberg, scrivendo, a proposito dell’opera kitsch, che ‘ Il prerequisito fondamentale per questo tipo di manifestazione “artistica” , è la disponibilità di tradizioni culturali completamente mature ed assodate, che contengano tutti quei valori, estetici ma non soltanto, da cui il kitsch può attingere, prendere in prestito per poi trasformare in mezzi adatti al conseguimento dei “suoi scopi” ‘ .).
Alla fine della mostra un mio studente mi disse: ‘Professore, ho visto ad Olbia, in un negozio, un gruppo di tenores in ceramica’. ‘Mercato e cultura in evoluzione’- gli dissi, aggiungendo ‘vedrà cosa succede quando restaureranno le statue nuragiche di Mont’e Prama’.
Oggi siamo qui, guccinianamente quasi dieci anni dopo, ad ascoltare un video istentalico sui ‘zigantes’ di Mont’e Prama, con un canto dall’avvio quasi gucciniano (anche questo ha un senso nella lettura più generale), atmosfere parahobbit, oscure parole, maschere ottanesi ruzzolanti ed epifanie miracolose, sempre in salsa religiosa e militare, e qualche parodia di uno scavo archeologico . Mentre nell’oristanese si aggirano statue in polistirolo e si annuncia, assieme ai giganti con chitarra (naturalmente gigantesca), la cucina dei giganti. Era peraltro prevedibile che l’invenzione di una scrittura e di una lingua non certo scientificamente documentata, ma emotivamente spinta sino all’inverosimile, entrasse in un universo kitsch, con la sua tipica maniera di riproduzione sommaria dell’originale procedura, di estrema riduzione metodologica soprattutto nei punti di tensione popperiana (verificabilità/falsificabilità dei dati). Il resto lo genera il legame con l’industria culturale contemporanea, che non pretende, nella sua relazione con la vendita facile e popolare, dubbi di metodo né tracciature di provenienza.
Però viene male, e non è tutto sommato corretto, criticare artisticamente e culturalmente ciò che sta semplicemente da una parte diversa dalla scienza e dall’arte. D’altronde la Sardegna è una terra davvero speciale, e avendo una grande cultura ha inevitabilmente e persino ‘giustamente’ molte produzioni kitsch. Lo trovo addirittura un diritto indiscutibile fare questo, come ovunque: non ci dobbiamo perciò indignare se si usano i segni culturali per produzioni che qua associano la parodia dell’arte a quella della scienza, in un comune linguaggio pacchiano. Dobbiamo semplicemente capire qual’è il luogo di queste cose, altro dall’arte e dalla scienza, infine la Sardegna come regione italiana e lembo di mercato..
Ora i nuraghi con la neve e le ciabattine di sughero non sono più sole, neppure i piccoli bronzi di Riace, e siamo così italiani, nelle vetrine della merce facile dove tutto sta assieme, dal portacenere a forma di Colosseo alla gondola di vetro al Papa sulle caramelle….A Mont’e Prama andai, questa canzone ti portai…
Mi resta il dubbio in positivo, visto che la presenza del kitsch è segno eloquente di cultura, che un tale eccesso non possa essere un’indicazione addirittura confortante; ma poi mi rendo conto, vedendo di nuovo quelle singolari scene, che al nostro kitsch manca quel minimo di leggerezza che nel suo campo, e non sarebbe poco, lo potrebbe rendere persino efficace (almeno, e davvero me lo auguro, per qualche commerciante). Ma la strategia, il pensiero, traiettorie e riferimenti culturali di liberazione della Sardegna stanno altrove, e identificarle con quelle produzioni significa stare dalla parte, in senso lato, del colonialismo e delle sue produzioni immaginarie dei sardi e della Sardegna. Dalla parte della riduzione a merce, di qualità medio-bassa, tipica del capitalismo avanzato.
Io mi auguro che non abbia del tutto ragione Abraham Moles, almeno per la Sardegna, quando si domanda “O il Kitsch non sarà, per avventura, l’esempio di un ‛totalitarismo senza violenza’, contro il quale non v’è rimedio al di fuori dell’ascetismo o della volontà creativa: due vertici che, nella piramide sociale, soltanto a pochi è dato raggiungere?”. Spero che non si sia davvero in pochi, tantomeno con desideri ascetici ed elitari, nel cercare di costruire un processo di liberazione della Sardegna e delle altre terre che non ceda sul rigore e la qualità della scienza, della cultura e della creazione artistica: base molto preziosa per una bella liberazione, che il potere teme più di ogni altra cosa. Iniziare ad averne una coscienza allargata mi sembra un passo enorme, vediamo di provarci.