Mi ha colpito la doppia intervista del ‘Giornale dell’Arte’ a due studiosi illustri come Salvatore Settis e Giuliano Volpe, il primo per il ‘NO’, il secondo per il ‘SI’, che hanno svolto un ruolo fondamentale per cultura e paesaggio, su referendum e patrimonio culturale. Al di là della indicazione elettorale, trovo produttivo analizzare alcuni concetti che nel loro diverso sviluppo rivelano matrici, affinità e distanze.
Molto ruota, non a caso, attorno al tema della valorizzazione.
A differenza della modifica al titolo V del 2001, una parte molto abbondante delle competenze potrebbe tornare in capo allo Stato, tra le quali la valorizzazione, che si affiancherebbe alla tutela.
E’ nota la stretta connessione fra i due momenti: per diversi studiosi ciò è motivo profondo di unificazione sotto lo Stato, mentre altri sottolineano che le scelte di valorizzazione debbano far capo – ovviamente nel rispetto delle leggi di tutela – soprattutto ai territori (a margine, ma non troppo: è vero che il modello del 2001 è fallito, ma per molte ragioni, tra le quali la principale mi sembra – ad onta dell’idea di decentramento che si sosteneva a parole – proprio la persistenza del ruolo e del potere centralista e statale, del suo riflesso nelle prassi non di rado proconsolari delle giunte regionali, di un decentramento senza oneri…per lo Stato e con molti oneri per gli enti territoriali. Le regioni hanno dato cattiva prova di sé, dicono i critici sostenitori di questa riforma. Siamo sicuri che sia successo per colpa del regionalismo e del federalismo?).
Prima di passare alle affermazioni degli studiosi, alcune premesse storiche non irrilevanti. Se nei lavori della Costituente la discussione sull’assetto dell’Italia, e del suo patrimonio culturale, fu molto fitta (e nobile, rispetto ad oggi), mostrando un confronto serrato fra due letture centraliste e federaliste (se non ‘decentraliste’), l’ideologia ottocentesca dello Stato si mantiene a lungo, anche nella giurisprudenza. Dopo la riforma del 1975 con la creazione del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, le forze della tutela e il sistema centralista si dimostrano presto insufficienti per un patrimonio di molte decine di migliaia di unità cresciuto nella ricerca, nella percezione, nella consapevolezza. Uno squilibrio strutturale costantemente accentuato e drammatizzato da fondi inadeguati che porta, fra l’altro, all’utilizzo sistematico e numericamente assai significativo dei cosiddetti collaboratori esterni (come sappiamo, non di rado impiegati con sfruttamento e diffusa gratuità).
Un possibile tentativo di soluzione a questo squilibrio mortale, percorso unificante di cultura e paesaggio non solo concettuale ma nel territorio reale, sta nella stessa legge 42/2004, ovvero la pianificazione urbanistica (costruita anche in altre regioni, come in Sardegna, a differenza di quanto sostenuto): certo servirebbe una territorialità della tutela radicalmente diversa, una nuova riflessione che pure è da qualche anno in atto e che si radica nella teoria e nella prassi dei beni comuni e nella realtà reticolare del nostro patrimonio.
Sembra paradossale, ma purtroppo non lo è, che oggi, dopo le esperienze certo non sempre riuscite di regionalismo, si torni a una visione antiregionalista che ritrova, nella scrittura e nei sostenitori della riforma, i toni degli anni Sessanta del Novecento. Nel campo dei beni archeologici è da notare, a suo modo esemplare, la posizione di Andrea Carandini, esplicitamente antiregionalista nelle sue dichiarazioni (“Le regioni sono state una catastrofe”) e non casualmente legata ad una grande Fondazione di volontariato come il FAI del quale lo studioso è presidente, ben disposta alle idee del Ministro Franceschini sul volontariato, con le tensioni che sappiamo sul versante delle pratiche sostitutive al lavoro).
Ma passiamo ad alcune osservazioni su quanto dichiarato da Salvatore Settis e Giuliano Volpe in relazione a beni culturali e quesito referendario, cominciando dalla valorizzazione: l’indubbio legame con la tutela viene invocato come ragione per una titolarità unica in capo allo Stato, però mi appare un argomento debole e sbagliato per togliere tale competenza alle Regioni. Vi sono norme della tutela alle quali gli interventi di valorizzazione devono sottostare in ogni caso, e la diversità non solo non dovrebbe spaventare (direi come l’identità e la democrazia), piuttosto rappresentare la ricchezza multiforme della composizione del paese Italia, che ha realtà culturali assai caratterizzate, verso la costruzione di una società dei beni comuni.
Vi è poi un’altra ragione molto seria che si lega all’economia e al lavoro: l’importanza – e direi il diritto democratico – per i territori di configurare tramite possibilità di governo diretto proprio lo sviluppo sostenibile invocato da Volpe; sappiamo anche che questa possibilità, laddove si verifica, permette una ben maggiore possibilità di lavoro. Le dimensioni dei nuovi assetti organizzativi, dei beni comuni e delle opportunità lavorative è stata individuata dai professionisti della cultura. Se ne trova traccia nei documenti congressuali, ad esempio, di associazioni di archeologi come l’ANA ( vedi qua, nella sezione Documenti, il Documento Programmatico 2013, in part. a pp. 18-20).
Non convince di questa legge, e perciò delle parole di Volpe, la rilevanza del fatto che alle regioni sia riconosciuta la promozione. Nonostante l’enfasi si tratta in realtà di un aspetto subordinato e più amministrativo della valorizzazione di altre scelte, forse di un suo attributo. È probabilmente per questo che le competenze vengono differenziate così distintamente.
L’art. 117 della riforma dice che le Regioni avranno potestà legislativa “in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale”, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici. Come già detto, le Regioni potranno intervenire solo all’interno di tali indirizzi e scelte, ovvero sulle attività culturali e la relativa promozione. Non si tratterà, per quanto riguarda lo Stato, di linee generali ma della presenza (per la verità in atto da tempo, come nel caso di Arcus) di organismi ben finanziati che interverranno direttamente in nome e per conto dello Stato.
La realtà è che si configura, assieme allo ‘Sblocca Italia’, un esproprio ai territori delle possibilità di governo di paesaggio e beni culturali: fatto che appare tanto più grave nel Meridione e in Sardegna, dove si registra il fallimento del modello industriale petrolchimico calato dall’alto, ed è ora scatenata la caccia a idrocarburi in mare e terra, assieme alla rapina di terre per produzioni energivore persino sovrabbondanti. Sul versante del lavoro ciò costituisce un danno oggettivo alle possibilità del lavoro professionale indipendente: in Sardegna negli ultimi trent’anni il forte aumento del lavoro nei beni culturali è legato, con tutti i suoi limiti, alle azioni di regione ed enti locali, che da tempo hanno superato, come potenziale lavorativo e retributivo, il lavoro ‘prodotto’ dalle iniziative direttamente statali. E peraltro prevedibile che dove lo Stato non arriverà, opererà il ricorso al volontariato gestito da politica, finanza di peso, Fondazioni: ciò che spiega il SI’ del Presidente del FAI e di alcuni nomi del settore, attenti a questo processo.
Tale indirizzo appare anche nel passaggio allo Stato delle competenze sul turismo. Che ci vogliano linee guida è cosa diversa dal voler controllare dal centro il turismo, indicazione che mi sembra più speculativa che logica. Come non pensare che il turismo non possa avere forme e iniziative diverse a seconda dei territori e del tipo di patrimonio? Anche in questo caso, si espropria la capacità di governo dei territori in particolare proprio nel campo del cosiddetto sviluppo sostenibile.
A margine, noto anche che la possibilità concessa alle regioni di intervenire “per quanto di interesse regionale”, su attività culturali e promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, appare come minimo ambiguo e soggetto a interpretazioni politiche che, laddove non saranno favorevoli alle autonomie e comunque fortemente limitative del loro campo d’azione, certamente potrebbero essere, come sottolinea anche Settis, foriere di tensioni interpretative fra Stato e Regioni.
Ad esempio: se per attività culturali ci si dovesse riferire a quel patrimonio di beni della contemporaneità non soggetti a vincolistica (come nella riforma del Ministero, e del suo nuovo nome a seguito del D. Lgs. 368 del 20 ottobre 1998), la sub-materia in capo alle regioni non riguarderebbe tutti i beni del passato; ma è più probabile che il legislatore intenda un ‘generico’ fare attività nel campo della cultura: quale sarà il confine tra promozione e valorizzazione? Se la valorizzazione è in capo allo Stato, chi dovrà reperire e gestire fondi con sponsor o altri sistemi? Tale indeterminatezza, e l’impiego di riferimenti non univocamente interpretabili sono potenzialmente destinati ad aprire tensioni di lettura costituzionale.
E qua cogliamo un’altra affermazione, che tende a vedere come positiva la riforma (nelle parole di Volpe) o, in modo speculare ma tutto sommato affine, negativa per Settis per il problema dei conflitti di attribuzione. Personalmente mi sembra che la riforma Boschi tenda a risolverli a favore dello Stato (anche se nella parallela riforma Madia, una volta osteggiata da Giuliano Volpe per i suoi pericoli sulla gestione dei beni culturali, è intervenuta molto di recente la Consulta indicandone l’incostituzionalità proprio sul tema ‘Stato-Regioni’).
Un’ultima annotazione vorrei dedicarla ad un passaggio importante di Giuliano Volpe: la confusione (in realtà deposito di concezioni diverse) fra Stato e Repubblica. Volpe sostiene che la valorizzazione deve essere in capo allo Stato perché lo dice l’art. 9 della Costituzione: la verità è che l’articolo 9 non parla di Stato ma di Repubblica (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”), che significa una lettura ben più ampia dei soggetti che intervengono nel paese.
Ciò fu il frutto dei lavori della Costituente, nel 1947, esito di una discussione molto serrata: quando stava prevalendo la dizione ‘Stato’ espressa da posizioni fortemente antiregionaliste (come l’azionista Codignola, il comunista Marchesi, e le proposte di quest’ultimo con Aldo Moro, responsabili del gruppo di lavoro dei ‘75’ dedicato alla questione beni culturali), il termine ‘Repubblica’ in luogo di ‘Stato’ fu favorito da un emendamento finale di Emilio Lussu, interprete delle più avanzate sensibilità territorialiste ed autonomiste. Ma tuttora, e le radici sono anche in quel confronto di settant’anni fa, molti che richiamano l’articolo 9 della Costituzione leggono Repubblica e pensano Stato.
Personalmente ho fatto la mia scelta, ma se non condivido le ragioni del SI’ e le osservazioni di Volpe, non mi convincono alcune diverse osservazioni di Salvatore Settis, che ha certamente ragione nel condannare lo smontaggio di pezzi importanti della nostra Costituzione: ho però l’impressione che alcune sue riserve provengano dall’idea che la riforma non sia compiutamente centralista.
Per concludere, credo che il ruolo degli studiosi citati sia stato fondamentale per il paese, e tuttora lo sia, ma decenni di lotte che sono sfociate nello straordinario riconoscimento degli archeologi e degli altri professionisti dei beni culturali grazie alla Legge 110/2014 esprimono un cambiamento profondo, soprattutto per merito dei lavoratori indipendenti che stanno cercando di rinnovare, nel lavoro, il sistema dei beni culturali e paesaggistici nel nostro paese. Professionisti lavoratori con un grande senso del ‘pubblico’ ma non certo appiattiti su posizioni stataliste e centraliste, che appartengono a una tradizione culturale nobile ma obsoleta.
Nel mondo odierno c’è una emergente rivendicazione di competenze centrali, che si associa, con la scusa di una maggiore efficienza peraltro non realizzata, ad una riduzione delle tradizioni e delle pratiche democratiche. Mi sembra che nella voglia di risolvere i conflitti fra Stato e Regione sia presente una forte tensione autoritaria che presuppone come logica l’eliminazione della dialettica territoriale, pericolosa come la democrazia. Comprendo i propugnatori di questa pericolosa riforma, temo che essi vogliano accentrare valorizzazione e turismo per controllare e amministrare politicamente, occupando lo Stato, la cosiddetta ‘gallina dalle uova d’oro’.
Di fronte a queste concezioni che attraversano in modo tutto sommato coerente i grandi studiosi citati, tocca che continuino ad operare nuove energie e nuove riflessioni per innovare e costruire, senza scorciatoie liberiste, gli approcci e i modelli verso una gestione profondamente modificata, democratica ed efficiente del nostro patrimonio culturale e paesaggistico.
- Immagine da A. Taramelli, Nuraghe Santu Antine in Territorio di Torralba (Sassari), in Monumenti Antichi dei Lincei, XXXVIII, 1939, coll. 9-70, fig. 1.