Il traffico degli oggetti archeologici è da noi illegale, ed è un attentato alla natura pubblica degli stessi nel nostro sistema di pensiero. E’ importante porsi il problema dei beni culturali rubati alla Sardegna, per i quali vengono battute aste e prospettate vendite. Che si ragioni sul loro rientro, problema sul quale a febbraio ho discusso partendo dall’incredibile ‘Collezione Becchina’.
Il fenomeno sta all’interno di un processo più generale favorito da interessi forti, in grado di commissionare scavi clandestini in Sardegna, alla partecipazione dei quali la nostra isola, e alcuni sardi, ha dato e forse dà ancora il suo contributo (generalmente di manovalanza e intermediazione, però con qualche esempio di ‘rango’).
Non è probabilmente corretto parlare di un trattamento specifico riservato alla Sardegna, come mostra l’asta londinese nella quale alcuni appassionati sardi hanno acquistato quattro bronzetti nuragici o proposti come tali, vista la presenza di manufatti greci, etruschi, etrusco-corinzi, romani etc.: è il profitto, e la capacità di proporre merce ben assortita, che anima la situazione, come si vede dal sito ufficiale dei venditori.
E le normative internazionali non sono uguali. Ciò che nello Stato italiano è vietato (pur con alcune eccezioni: e gli italiani della società in questione fanno parte di una casa d’arta e antiquariato credo legalmente costituita), altrove è consentito. Il vero problema, come è noto, sta nella formazione e tracciatura della collezione.
Ma nella nostra attuale vicenda storica, dove pur in maniera contradditoria cresce la coscienza dell’identità e dell’emarginazione della stessa operata a lungo da parte della cultura dominante, si tratta di questione doppiamente seria.
In ogni caso, da quello che oggi si legge, l’iniziativa di acquisto proposta come recupero della nostra identità presenta, proprio da questo punto di vista, più di un punto critico e da approfondire.
– Vi è intanto un problema di contesto: un manufatto senza provenienza (soprattutto senza il terreno monumentale dal quale proviene, né lo strato di appartenenza, capace di indicare cronologia, funzione e senso del deposito archeologico) perde molto del suo significato. Il suo valore identitario (che si muove altri piani e valori da quello antiquario), dato non solo e non tanto dalle caratteristiche della produzione quanto dal legame con il luogo, è frantumato. Questo il danno scientifico, nell’atto dello scavo clandestino irreparabile, ed è anche un danno identitario molto profondo.
– Vi è un problema di trasparenza scientifica: è noto come le collezioni private, e di conseguenza anche le aste che ne battono le provenienze, registrino la presenza di molti falsi, fatto che – quasi due secoli dopo la grande ‘stagione’ ottocentesca – riappare con nuova linfa grazie a meccanismi di mercato molto evoluti rispetto a due secoli fa. Appare perciò importante stabilire l’autenticità dei bronzetti (a giudicare dalle immagini, si pone il dubbio in più di un caso).
Anche perché, rientrando in Italia, dovrebbero essere sottoposti sulla base della normativa vigente (D. Lgs. 42/2004), a procedimento di notifica e vincolo, e appare evidente come tale operazione sia strettamente connessa alla valutazione di autenticità da parte, o accettata, dal Ministero.
– Ha il suo peso anche la trasparenza finanziaria: essendo beni pubblici mi pare opportuno conoscere – credo anche che debba essere trasmessa per legge – la cifra mediante la quale si sarebbero acquistati i bronzetti: a giudicare dalle notizie disponibili nell’asta, sembra doversi posizionare complessivamente attorno ai quattromilatrecento euro. Nel suo complesso mi sembra un’operazione discutibile e pasticciona, che contrappone antiquaria ad antiquaria, anche se formalmente “a fin di bene”, mediante l’enfatizzazione del manufatto singolo e dell’azione individuale. Ciò che evidenzia naturalmente l’assenza delle istituzioni pubbliche.
A seguito di quanto detto prima, mi apparirebbe demagogico e sbagliato ‘distribuire i bronzetti’, senza che questi abbiano un senso legato al luogo, a qualche museo locale e in ogni caso senza perizia giuridicamente valida di autenticità.
Sarebbe decisamente meglio piuttosto, laddove non si riuscisse a risalire (sempre nel caso di autenticità) al contesto, come pare evidente, rispettare almeno la ‘collezione’ o parte di essa (ciò che sarebbe previsto ancora dal ‘Codice’), e soprattutto rivolgersi all’unico contesto possibile: una sezione importante in un grande museo sardo, se non addirittura un apposito museo sardo, ‘dell’arte rubata’ che sappia esplicitare le ragioni di tutto ciò con franchezza e trasparenza, che sia insegnamento, che spieghi il caso della spoliazione identitaria, i traffici, i falsi, le convergenze criminali, le coperture.
In linea più generale, è urgente costruire una strategia che protegga davvero le aree archeologiche e non le privatizzi, che combatta concretamente a livello internazionale gli scavi clandestini individuando i centri di potere economico e politico legati al traffico degli oggetti archeologici. Senza dimenticare che ogni cedimento concettuale alla privatizzazione dei beni archeologici significa indebolire la loro forza culturale e collettiva.
Gli attacchi che vediamo al sistema della tutela, l’indebolimento strutturale dello stesso dal parte delle politiche degli ultimi decenni e attuali, come da poco la riproposizione (ne parleremo in altra sede) del ‘silenzio-assenso’ non ci devono lasciare indifferenti, anche se appartengono ad un contesto istituzionale che vorremmo superare.
Ma sono fatti importanti anche azioni appartentemente più ordinarie: togliere enfasi alla comunicazione, non dire dove si trova ogni cosa se non si è in grado di proteggerla, informare correttamente e senza però troppi ritardi; e soprattutto aumentare gli investimenti nelle aree monumentali, evitando di proporle (furbescamente, senza gli investimenti relativi e la creazione di lavoro) in assenza di mezzi professionali di tutela: tutti favori ai clandestini e tombaroli di oggi e domani, e danni al nostro patrimonio culturale.
Un luogo dove si veda, discuta e apprenda la cesura, lo strappo della memoria rubata, eppure il suo ritorno, mi sembra una prospettiva che meriti di essere perseguita.
* (1 luglio 2015)
P.S. Alcuni giorni dopo questo articolo, originariamente pubblicato come mia nota su Facebook, vi è stata un’interessante e importante intervista al Soprintendente Archeologo della Sardegna Marco Minoja, alla quale dò il link.