Si è qualche tempo fa riacceso il clamore sulle controverse figurine in bronzo acquistate a Londra da alcuni appassionati e prima appartenenti ad un antiquario libanese, di un lotto composto da numerosi bronzi di tipo nuragico.
Espressi subito forti dubbi nel mio blog sull’autenticità dei bronzetti, successivamente e ben più autorevolmente avanzati dal Soprintendente, di recente da altro collega della Soprintendenza (d’altronde, poco più di quattromila euro per quattro bronzetti, se sono originali, sono decisamente un ottimo prezzo, da saldi invernali piuttosto hard; se fossero dei falsi, il prezzo – per i venditori – sarebbe decisamente buono).
Non entro oltre nel merito della polemica intercorsa, se non per dire che mi appare impensabile che la garanzia di autenticità di un bene archeologico il cui commercio è vietato dalle leggi italiane si possa basare su quanto dichiara la stessa asta che lo ha messo in vendita. E che in ogni caso la permanenza nel nostro territorio di quegli oggetti ne rende opportuna, almeno credo, e necessaria la notifica, assieme alla relativa perizia a norma di legge.
In realtà il problema dell’autenticità è fuorviante, ma utile per inquadrare il contesto: l’esistenza di un mercato privato che si costruisce attraverso la catena scavo clandestino/spedizione/arrivo ai collezionisti/ricettatori privati sino ad aste e musei ‘rispettabili, con il parallelo sorgere di falsi dentro collezioni, mostre e gallerie (organico a tale mercato), la necessità di tutelare il nostro patrimonio. Ricordo le mostre del 1980 a Karlsruhe, o di Ginevra fra il 1993 e il 1994, dove fecero capolino bronzi nuragici provenienti da scavi clandestini operati nel nuorese affiancati a straordinari falsi.
Più che un problema di ‘fantarcheosardismo’ (termine inadeguato e generalizzante), come dimostrano falsi etruschi, italici, romani, scozzesi etc. , a generare i falsi è piuttosto la relazione fra mercato e i nazionalismi etnocentrici, oggi rinvigorita dalla Società dello Spettacolo (maestra l’Italia, se pensiamo all’inesistente Alberto da Giussano ‘lanciato’ da Garibaldi e Goffredo Mameli, cantato a squarciagola).
Difficile rompere questo traffico così economicamente rilevante a livello globale, fermare la malattia degli scavi clandestini, gravissima per i nostri beni culturali, per la Sardegna e la sua identità. Sapendo che un reperto separato dal suo terreno, dallo strato, dall’associazione con altri materiali, è sostanzialmente muto (un falso, invece, parla troppo).
La risposta al recupero del patrimonio, e alla sua valorizzazione, non può essere della stessa natura che ha prodotto il danno, privatistica, professionalmente malferma. Non sul patrimonio pubblico almeno. A partire dall’eventuale partecipazione ad aste legate alla vendita dei reperti archeologici, sistema vietato dalle nostre leggi, che dovrebbe poter venire solo attraverso un’autorità pubblica, con opportune garanzie e preventiva inchiesta professionale.
Soprattutto non si riflette su un meccanismo fondamentale: se questa prassi diventasse sistema individuale, avremo come risultato una crescita del mercato clandestino che non potrà essere alimentata che da nuovi scavi di tombaroli oppure da falsi, in modo da rispondere alla ‘richiesta’ di nuovi acquirenti. Il risultato drammatico di un’idea irresponsabile.
E’ quindi soprattutto l’assetto del controllo pubblico, oggi indebolito, dei beni culturali e paesaggistici, a dover essere meglio essere ‘valorizzato’. Non solo al vertice, ma alla ‘base’, perché si tratta di ‘beni comuni’, espressione di comunità nei luoghi.
Trovo allora indifferibile un nuovo modello pubblico nel quale i territori – che già intervengono sui complessi monumentali per legge dello Stato tramite la pianificazione urbanistica – possano operare, in sintonia con gli organi competenti sulla base di specifiche leggi. E investire in restauro, guardiania e valorizzazione, creando lavoro retribuito non sostituendo, per risparmio, con volontariato: un patrimonio vivo, che dia lavoro e produca qualità, è il maggiore ostacolo al prelievo illegale e alla razzia.
Diversamente non ci sono le forze per poter difendere un patrimonio così vasto.
Resta la questione dei reperti trafugati, dei recuperi che la legge talora riesce a fare, della coscienza del problema, di un censimento delle collezioni e delle relative indagini su di esse: mi piace allora pensare anche ad un luogo dove si veda, discuta e apprenda la cesura, lo strappo della memoria rubata eppure il suo ritorno.
Una sezione importante in un grande museo sardo, se non addirittura un apposito Museo sardo ‘dell’arte rubata’ che esponga i recuperi e sappia esplicitare le ragioni di tutto ciò con franchezza e trasparenza; che sia insegnamento, illustri il caso della spoliazione identitaria, i traffici, i falsi, le convergenze criminali, le coperture.
Che esponga anche i ‘bronzetti spuri’ spiegandone le ragioni.
* Questo articolo è una rielaborazione di quello pubblicato su ‘La Nuova Sardegna’, Pagina Cultura, il 5 ottobre 2015.