Stanno ‘tornando di moda’ i distretti culturali. Una storia complessa, contradditoria, un modello che appare lontano dalle corrette premesse per valorizzare in modo pieno e virtuoso il patrimonio culturale e paesaggistico della Sardegna. C’è chi pensa che le politiche regionali di valorizzazione dei beni culturali della Sardegna debbano essere delegate a un modello di ispirazione industriale e paternità bancaria.
E’ vero, in linea più generale, che in questo settore uno dei problemi teorici e politici più seri è determinato dall’eccessiva distanza fra il grande patrimonio culturale e la capacità di produrre, e prima ancora pensare, corretti e soprattutto coerenti sistemi di valorizzazione.
In questi ultimi tempi, di fronte all’assenza della politica, e del suo nobile ruolo di governo pubblico, si diffondono iniziative episodiche, o settoriali, e purtroppo anche l’idea che tutti possano improvvisarsi esperti di beni culturali, oppure esperti di valorizzazione, senza le necessarie basi teoriche. Evidentemente non così rilevanti se nelle strategie di gestione e valorizzazione dei beni culturali prevale soprattutto il desiderio di controllare il settore da parte della politica: o con sistemi centralistici (come fu la proposta della Fondazione Beni Culturali Sardegna), alla quale dedicammo a suo tempo un’attenzione ancora non abbandonata, o attraverso sistemi territorializzati di controllo da parte di centrali di potere finanziario e istituzionale settoriali ricuciti dalla politica stessa (la proposta di legge sui ‘Distretti culturali’). Non sarà casuale che uno dei firmatari (Giuseppe Cuccu) lo sia di ambedue i progetti.
Valorizzazione. Prima di ritornare sui ‘Distretti’ (di recente ne è stato presentato uno a Nuoro; un altro è finanziato dall’accordo Regione Sardegna- Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione economica della Repubblica italiana: si confermano le radici bancarie e industriali, con i settori istituzionali ad esse legate; ma, come vedremo, neppure tutto il settore ideologicamente ‘liberista’ sembra convinto dei Distretti culturali) soffermiamoci su alcune coordinate teoriche e le relative possibili ricadute operative. Iniziamo dalla valorizzazione.
La valorizzazione è un concetto per il quale, sia a livello di definizione (quella ufficiale, istituzionale è all’art. 6 del D. Lgs. 42/2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio, sia nei profili giuridici, sono possibili diverse letture. Vi è una tensione profonda fra il concetto di valore, legato prevalentemente al mondo economico, e quello dei beni culturali, legato, con ulteriore dialettica concettuale annidata nel termine ‘bene’, ai beni pubblici (e ora, con interessante evoluzione, ai beni comuni).Questa tensione e l’adesione a diverse letture generano naturalmente risposte diverse.
Quello che in ogni caso dovrebbe essere un solido metodo comune alle diverse ipotesi possibili è la necessità di basarsi sui dati reali e attendibili del territorio, di partire dai luoghi: in maniera strutturata, con senso, perché l’attenzione al territorio non sia solo uno slogan, un mantra generico come la parola stessa. Le azioni mirate a rendere vasta, e anche economicamente fruttuosa, la fruizione di un bene culturale sono di grande importanza: è la possibilità di accedere e fruire di un bene pubblico che lo rende pubblico nella sostanza, perché la forma (pur essenziale) del vincolo giuridico non basta a renderlo tale. La teoria dei beni comuni, nel godimento che fa parte della natura stessa di un bene, impiega due eloquenti categorie provenienti dagli studi economici: ‘non rivalità’ e ‘non escludibilità’ .
Conoscenza del patrimonio e qualità delle informazioni. Per impiegare al massimo le straordinarie potenzialità del patrimonio culturale e del suo settore in Sardegna non si dovrebbero quindi trascurare fattori fondamentali come la conoscenza del patrimonio, l’organizzazione per luoghi dello stesso, la sua disponibilità, l’impiego del lavoro professionale. Cercare di costruire valorizzazione senza un buon utilizzo e una corretta presenza di tali fattori sarà sempre poco efficace, tranne che per qualche parziale interesse.
Insisto sulla qualità dei dati perché nei principali e interconnessi aspetti legati alla fruizione dei beni culturali, come la comunicazione e più in generale la valorizzazione (che la contiene), la buona divulgazione deve seguire, e non precedere, i dati della ricerca scientifica, e ad essi deve riferirsi per essere in grado di produrre proposte di alta qualità.
La forza di un’offerta culturale duratura è data principalmente dalla qualità intrinseca del bene culturale; gli altri elementi, importantissimi – ad es. promozione, slogan, enfasi comunicative, marchi, servizi di vario genere, merchandising, proposte editoriali, digitali, organizzazione di eventi etc.- sono elementi di forza che dovremo considerare aggiuntivi.
Alcuni di fatto pensano che soprattutto questi ultimi siano importanti (è presupposto del meccanismo dell’invenzione sensazionalistica e mediaticamente ruffiana): sono quelli che dicono più o meno “Vabbè, possiamo anche inventare qualcosa, o proporre qualcosa di non provato. L’importante è far venire i turisti e far circolare ricchezza”. Ecco perché fioriscono anche in Sardegna mondi paralleli e misteri più o meno nascosti, assieme a (geo)portali vestiti di nuove tecnologie ma scientificamente non sempre credibili e spesso pieni di strafalcioni, anche incredibili, sui quali ci siamo già espressi. L’importante è candidarsi a governare un circuito appetibile e accedere ai relativi finanziamenti, a prescindere dalla qualità. Un pessimo servizio all’identità e anche al particolare mercato connesso all’economia della cultura (naturalmente, se sulla qualità si vuole puntare).
Le informazioni affidabili, scientificamente certificate, sono connesse ai luoghi. Ecco un altro punto essenziale: diversamente, semplicemente ‘non è Sardegna’. Una modalità che da essi parte, e solo in questo modo esprime la realtà, identità e pregio – che riposa anche nella capacità di essere diversi, in una splendida ‘biodiversità culturale’ – dei nostri paesaggi culturali. Dove reperirle? Come e cosa serve per organizzarle?
Le basi dati. Una prima base informativa dei dati va ricercata negli elenchi dei Piani Urbanistici Comunali, ad opera di esperti dei vari settori (anche se la raccolta dati oggi appare ora depotenziata, dopo i tagli alle tipologie dei beni identitari operata dalla riforma al PPR operata da Ugo Cappellacci). Esistono poi molti censimenti e catalogazioni effettuate da Comuni, Enti pubblici e Università (e anche i dati raccolti mediante le Valutazioni di Impatto ambientale o le Verifiche archeologiche preventive, che non possono essere svolte che da persone con opportuni titoli). Un patrimonio di informazioni straordinario che si innesta sui vecchi grandi censimenti di Ottocento e Novecento, e che dovrebbero essere unificate in unica base dati regionale, ciò che significa lo storico problema di una solida strutturazione del Centro Regionale di Catalogazione. Obiettivo che dovrebbe essere centrale, strategico per il settore beni culturali, ma non mi sembra che sia stato investito da appassionati disegni di legge o interrogazioni…
I luoghi. Perché un’affidabile base territoriale, partendo dai luoghi, è fondamentale? Perché solo lo studio delle diverse testimonianze permette di comprendere ogni paesaggio (il paesaggio si forma e modifica nella storia, nelle sue diverse fasi, nelle reciproche interazioni e sovrapposizioni, in cancellazioni e riusi), e la costruzione di reti deve essere coerente alla realtà del patrimonio, alle sue variabili e interazioni culturali. In assenza di queste informazioni, o attraverso una raccolta episodica e non strutturata delle stesse, si opera una valorizzazione parziale, culturalmente distorta, territorialmente soggettiva, dettata da altre esigenze. Non si capisce, e coglie, la Sardegna.
Beni culturali e lavoratori cognitivi. Da ciò discende anche lo stretto legame fra una base dati qualitativa e la sua organizzazione da parte di lavoratori cognitivi del settore, in Sardegna molti, fra ricerca e comunicazione, di buona formazione e qualità: archeologi, storici dell’arte, demoantropologi, bibliotecari, archivisti, e altre figure ancora, sino alle guide turistiche specializzate. Una realtà in crescita che porta una caratteristica molto particolare: formalmente professionisti, quindi, ‘privati’, operano per formazione ed esperienza nel pubblico, hanno codici deontologici legati a tale dimensione. Rappresentano perciò un grosso segmento di lavoro autonomo e indipendente molto sociale, che di fatto opera nei beni comuni e nel territorio. Chi sta proponendo i distretti culturali senza mettere al centro neppure questo fattore esprime una maniera vecchia, paleoindustriale e paleosindacale, che non coglie le realtà lavorative e professionali prima indicate, alcune di esse da poco riconosciute da una legge attesa da decenni come la legge 110/2014.
Procedure. Quindi, per riepilogare pur in sintesi il procedimento che ci sembra corretto: un processo pubblico di politiche di valorizzazione dei beni culturali e paesaggisti dovrebbe partire facendo diventare innanzitutto effettiva, reale, la conoscenza luogo per luogo, rendendola pubblica risorsa; leggerne bene le caratteristiche; costruire lavoro con queste operazioni; puntare su aree da valorizzare con politiche di restauro e consolidamento delle stesse; costruire reti di siti da mettere in gara pubblica per la gestione; infine, da queste realtà strutturate, lanciare politiche di valorizzazione che si basino su progetti mirati a far conoscere il patrimonio e potenziare gli aspetti della fruizione, comunicarlo nel mondo, migliorando le caratteristiche di accessibilità e raggiungibilità dei siti, costruendo sinergie con le altre risorse del territorio stesso e con l’ospitalità.
Si tratta di costruire con buon senso partendo dalle fondamenta per arrivare al tetto. Ma coi distretti culturali sembra di partire dal tetto – al massimo da un piano sopraelevato per qualche consiglio di amministrazione – eludendo le fondamenta: nessun rapporto con le basi dati (o anche richiesta delle stesse), selezione delle informazioni delle ‘principali’ o più famose emergenze, incomprensione dei luoghi, assenza di riferimenti (o limitati a qualche settore istituzionale) alle realtà professionali che operano per studio e analisi, valorizzazione di debole e precaria identità concettuale.
Distretti culturali, modelli e criticità. In Sardegna si discute da anni dei distretti culturali: di una certa qualità fu il primo approccio programmatico regionale, uno studio di fattibilità del 2005, che si poneva il problema di un migliore riferimento al territorio, bottom up, rispetto alla tradizionale impostazione degli stessi; ma anche in esso non si accennava, né si dava l’importanza dovuta, alla coerenza dei dati-base e alle realtà lavorative coinvolte e da coinvolgere.
L’elusione dei lavoratori cognitivi appare evidente anche nella proposta di legge Cuccu-De Francisci sui ‘Distretti Culturali’ presentata nel 2011, nella quale non leggiamo alcun riferimento al lavoro specializzato possibile in Sardegna (né dei fattori fondamentali prima indicati per operare coscientemente e in maniera organica sul patrimonio sardo), con curiosa e selettiva definizione degli operatori privati:
“Per operatori privati intendiamo le società commerciali – case editrici, librerie ecc. -, tutto il mondo del volontariato operante nel campo della cultura, le Fondazioni culturali e le altre istituzioni culturali di promanazione pubblica ma operanti nel “mercato” quali musei, centri di documentazione ecc”.
In questi ultimi anni mi sembra che si torni indietro persino rispetto a quella impostazioni.
Il modello industriale come base dei distretti culturali (è una rivendicazione esplicita degli stessi promotori e ideologi) diventa una criticità sul ‘Sole-24 Ore’ in un articolo del 14 aprile 2013 firmato da Pier Luigi Sacco, autorevole studioso coinvolto nella discussione e messa a punto RAS del 2005. Questa idea dei distretti l’anno scorso viene liquidata con durezza proprio in Sardegna da Alessandro Laterza (noto editore e responsabile Confindustria per il Mezzogiorno) , che dà questa ‘fotografia’ dei distretti culturali: “Sono nati in Lombardia perché la Fondazione Cariplo aveva bisogno di individuare un assetto non localistico al quale dare i soldi, ma altrimenti non esistono, non sono un’entità se non vagamente descrittiva”.
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Insomma, ben vengano le iniziative di sviluppo della cultura, e le proposte di privati e consorzi: ce n’è bisogno, e la discussione merita di accrescersi. Ma esse non dovrebbero riempire il vuoto di pensiero pubblico, surrogandolo: iniziative che non sanno relazionarsi, in maniera metodologicamente adeguata, al nostro patrimonio culturale e al territorio non possono pretendere di essere delegate a governare le politiche pubbliche della Sardegna, come viene affermato. Speriamo di non essere nuovamente di fronte a un noto fenomeno della vecchia politica, evidentemente non rottamata, riverniciato da qualche parola tecnocratica: ovvero, la ricerca di finanziamenti pubblici per idee non esattamente pubbliche, non funzionali alla realtà del patrimonio culturale sardo e del lavoro (trattandosi di cultura, mi sembra l’altra faccia della ‘Buona Scuola’).
L’approccio che abbiamo prima sintetizzato dovrebbe essere promosso da un Ente pubblico come la Regione, sperando che finalmente si acceleri la costruzione e implementazione delle basi dati, pubbliche nei vari settori culturali. Esso permetterebbe, con azioni di indirizzo, incoraggiamento e anche premiali basate su norme e regole di qualità, di modulare microprogetti locali, microprogetti di rete, iniziative che, ricucendo quelle precedenti, si muovano su scenari più ampi. In un procedimento complessivo dotato di coerenza e capace di esprimere ricchezza e diversità culturali, di costruire lavoro qualificato.
Il modello dello cosiddetto ‘sviluppo locale’ e dell’autogoverno dei beni comuni può essere maggiormente efficace, senza ricorrere a modelli slegati dal nostro territorio, mutuati da altre realtà, in tutta evidenza neo-colonialisti.