Il fatto che il sistema italiano della tutela costruito nel Novecento sia arrivato al capolinea riguarda molto da vicino la Sardegna.
Dopo il tentativo di decentramento e democratizzazione dello Stato maturatosi fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento con la riforma delle Regioni e, per quanto concerne i beni culturali e ambientali, negli anni Ottanta con la
pianificazione paesaggistica, le istanze di decentramento regionale sembrano essersi fermate. Vi è un ritorno al centralismo che tradisce un preciso intento di controllo delle risorse territoriali, e dei loro possibili profitti, da parte del ceto politico e finanziario.
La ‘crisi’ esclude con evidenza la prospettiva di una crescita degli investimenti, nonostante le nuove e accresciute necessità; una politica tutta romana che, attraverso tagli e riadattamenti degli uffici e iniziative politiche basate sull’uso disinvolto del volontariato o di giovani sottopagati, prende corpo, punta agli eventi e ai monumenti ‘principali’ e trascura di fatto la rete diffusa del patrimonio (quando non cerca di minarla con il ‘silenzio-assenso’: vedi oggi e una riflessione di qualche giorno fa).
Servirebbe una politica che non vedesse solo l’esistente, con periodiche soddisfazioni sarde per i riconoscimenti del governo italiano di turno (sono lieto se oggi il ministro Franceschini si è davvero espresso per l’esistenza di un solo museo per i manufatti di Mont’e Prama, quasi scoprendo una battaglia che da anni, in buona e numerosa compagnia, conduciamo: vedi questa pagina; lo sono di meno quando non si accorge che la Sardegna non è solo Mont’e Prama, ma è soprattutto un’incredibile identità di monumenti, tradizioni e paesaggi dei quali Mont’e Prama è importante, ma conseguente episodio).
Da nessun’altra parte vi è una densità così elevata di beni culturali come in Sardegna, sicché il ‘caso’ potrebbe avere valore esemplare.E’ perciò urgente lavorare per un modello adatto a salvaguardare le caratteristiche e la natura pubblica del patrimonio, da strutturare come sistema di gestione diretto, reticolare, attento, di governo dei beni comuni, di maggiore efficacia per la relazione con la natura reticolare del patrimonio (particolarmente marcata proprio in Sardegna).
Un modello fondato sui luoghi può trovare un primo aggancio e base di partenza sul sistema espresso dalla pianificazione urbanistica. I PUC dànno elenchi dei beni culturali e paesaggistici, con schede sintetiche georeferenziate, e quindi una prima conoscenza del patrimonio, ciò che è in grado di permettere una lettura diffusa e qualche elementi diagnostico dello stesso. Si tratta di una prima battaglia immediata, e anche specifica, perché è in atto, grazie ad uno degli ultimi provvedimenti della giunta Cappellacci (che non mi risulta abbandonato), un pesante ridimensionamento dei c.d. beni identitari nel sistema del PPR,e quindi dei PUC, con ritorno conseguente di carico allo Stato (che peraltro ha sempre meno risorse) e ulteriore depotenziamento delle comunità.
(A margine, ma non troppo: il trasferimento alla Sardegna delle competenze sui beni culturali non deve avvenire a detrimento della loro tutela, e passare ad esso da un modello come quello indicato potrebbe garantire una maggiore efficacia, e un legame più forte e diretto con l’identità).
Elementi del patrimonio e di valorizzazione
I beni culturali in Sardegna sono ritenuti risorsa fondamentale per uno sviluppo sostenibile, connessi all’identità definita nel paesaggio. Hanno caratteristiche assai significative: grandi quantità e qualità, molte tipologie, ampia diffusione su tutto il territorio, presenza importante di lavoratori cognitivi in grado di prendersene cura professionalmente. Si può inoltre presupporre una crescita sicura, essendo relativamente poche le aree messe ‘in circuito’ rispetto alla disponibilità potenziale (circa ventimila monumenti: non tutti circuitabili, o valorizzabili allo stesso modo, ma in ogni caso un numero enorme). E’ direi strategico governare questi fattori. Molto in sintesi: la disponibilità diretta del bene e dei mezzi per governarlo, lo stato di conservazione, il grado di tutela, la ricerca, il lavoro cognitivo specializzato.
Chi opera seriamente nel patrimonio culturale sa che conoscenza, ricerca, tutela, valorizzazione sono fattori specifici, ma fortemente integrati e da sviluppare con professionalità.
Periodicamente si riprende a parlare di valorizzazione, ma essa, parola magica e ambigua, rimane priva di senso se non si conoscono la natura della risorsa, le sue caratteristiche, la delicatezza e le esigenze.
Una diffusa vulgata economicistica rischia di equiparare il bene culturale ad ogni altra merce, quando non lo è: serio errore culturale e grave errore economico. La radice del valore di un bene culturale, che opera in un ‘mercato’ molto (per lo meno ancora) atipico, sta nella leggibilità e coerenza scientifica della sua storia, negli interventi per mantenerne il racconto, per proteggerlo dal consumo antropico e permettere che una curva prolungata dello stesso non sia distruttiva per il bene.
C’è anche da diffidare, essendo il patrimonio come da nessun’altra parte esplicitamente radicato nei luoghi ed espressivo degli stessi, di artifici territoriali, basati sulla valorizzazione delle sole emergenze esistenti e prevalenti che spesso perdono, o non hanno, le connessioni con il tessuto reticolare reale, dal quale si deve partire per fondare strategie credibili.
Operare con questi vecchi sistemi (tali sono, in misura larga, anche i ‘Distretti culturali’, che trasportano nel territorio dei beni culturali il modello dei distretti industriali) non permette di ‘valorizzare’ opportunamente le potenzialità enormi della risorsa cultura/paesaggio.
Il senso del patrimonio da valorizzare si ricava, e si costruisce in sistema, interrogando i luoghi e scoprendone le relazioni; ricchezza straordinaria in un paesaggio letteralmente opposto ai ‘non luoghi’ che può essere la nostra forza principale e duratura, anche nel particolare mercato del tempo libero.
Valorizzare un pezzo di storia del paesaggio sardo è proporre alla fruizione una differenza, non un’omologazione. Questo richiede studio, non improvvisazione affrettata e incompetente; tempo, non effetti speciali.
Serve perciò procedere dai luoghi con un reale brainstorming su tutta l’isola, unificare le conoscenze affidabili, individuare il senso della storia come testimoniato nel paesaggio e dal paesaggio, investire progressivamente in un quadro di riferimento sicuro aggregando i beni culturali in reti reali assieme a lavoro qualificato, professionale, retribuito; respingendo la pratica, che sta unificando certa politica e certe associazioni e fondazioni, di un volontariato sostitutivo così opportunisticamente di moda.
Come in certi, saggi insegnamenti zen, la verità è probabilmente più vicina di quel che crediamo.
Ripartire dai luoghi, quindi, e aprire partendo dai comuni una sana contraddizione con il neo-centralismo, costruendo lavoro in un rinnovato sistema di tutela e valorizzazione del patrimonio, dal quale appare sinora clamorosamente assente, non a caso, la politica.