Paesaggi costieri e fluviali di età fenicia e punica *

Bosa e territorio (Ministero dell'Ambiente, Geoportale Nazionale 2014

Bosa e territorio (Ministero dell’Ambiente, Geoportale Nazionale 2014)

Segni di viaggio

Certamente Bosa dovette partecipare alla definizione del profilo di Ichnoussa, perimetro di un paesaggio misurato attentamente, momento fortemente conoscitivo orientato verso una restituzione già cartografica. Sembra quasi riproporsi, come osserva Christian Jacob nel suo ‘Carte greche’[1] ,  <<un vecchio sogno mitico, quello di Dedalo e Icaro: vedere l’ecumene a volo d’uccello>>.

Territorio che acquista senso nel profilo, profilo letto dentro un sistema di metafore e per questo così delineato.

“E’ il segno che fa il territorio”[2] , nella geografia e nelle letture rizomatiche, ma sono gli elementi che portano dentro il territorio a suggerire i segni e identificare i luoghi.

Il tema di oggi è il fiume e il mare. Il mondo conosciuto è anticamente legato ad acque che lo avvolgono dividendolo dall’ignoto. Il viaggio è il disegno di questa narrazione.

 

Nei primi grandi racconti mitici la dimensione del viaggio esplorativo verso terre e segreti della vita è incardinata in grandi spazi fluviali formativi, mentre il mare sembra configurarsi come un elemento lontano, o vicino come ignoto[3].

Quando le regioni dell’ecumene cominceranno ad essere caratterizzate anche dagli spazi marini, grazie in particolare alle vicende presupposte dalle marinerie egee e vicino-orientali nel corso del II millennio a.C.,  forse anche solcati da navi nuragiche,   il viaggio mitico sarà ormai spostato dai grandi fiumi al mare, ed il ‘il mare fra le terre’  si riempirà di popoli particolari e mostri acquatici, parafrasi immaginarie di paura dell’ignoto  o disseminati maliziosamente dai marinai per proteggere segreti e passaggi[4].

È attraverso questo processo politico e fortemente intessuto di saperi e riflessioni, di nuove strutture culturali che traducevano in elaborazioni narrative il mutare dei sistemi produttivi, che il Mare Mediterraneo si popolò progressivamente di viaggi e miti espressi da paesaggi che possiamo davvero chiamare culturali:  anche se non erano connotati da questo termine a noi usuale, contemporaneo, come tali in qualche modo dovettero apparire, nel visibile e nel non visibile,  agli occhi dei marinai.

Con l’età del Ferro, nel crinale tra gli ultimi secoli del II millennio a.C. e i primi di quello successivo, lo scenario ricordato dalle fonti è ormai quello di un antico Okeanòs annunciato  dallo stretto eracleo, presso l’attuale Gibilterra, con le sue mitiche colonne, con gli  antichi santuari di Melqart a Lixus e Cadice-Gadir che ripetono il mito fondativo di Tiro.

 

Paesaggi costieri

Tucidide ricorda come  la Sicilia, prima dei Greci,  fosse  << punteggiata di stazioni fenicie che si attestavano di preferenza sui promontori lambiti dal mare e sugli isolotti prossimi alla riva, punti utili per la rete commerciale fenicia in Sicilia>> [5] . Paesaggi su promontori, isolotti, rocche, approdi fluviali sono l’ingresso nella storia delle nuove città;  la terra in mezzo ai fiumi (mésos potamòs) diventata  il mare entro la terra, mostra lo spostamento della gravità dalla Mesopotamia al Mediterraneo, verso il cui bordo orientale si spingono, dai mitici grandi fiumi,  Assiri, Babilonesi, Persiani.

Ad indicare  con precisione questi modelli di paesaggio e il segno del viaggio di uomini ed economie furono i luoghi delle città fenicie, documentati per scrittura e immagine dalle fonti egiziane (già dal Tardo Bronzo), veterotestamentarie  e assire, disposti lungo le coste dell’attuale  Libano verso il mare aperto e l’occidente, i promontori di Biblo, Sidone e Berito, Arwad, o le isole, come Antarado; la grande Tiro, esemplare nei suoi racconti mitici, come quello del primo navigatore, raccontato da Filone di Biblo e ripreso dal Fantar in un suo fondamentale viaggio cognitivo nei mari fenici[6]: scoppiato un incendio nella foresta di Tiro, prese un albero, spogliandolo dei rami, e lo gettò in mare; o come quello delle due isole – ci viene in soccorso Nonnos di Panopoli[7] –   create magicamente per Tiro da Heraklès/Melqart, che lo racconta, ricoperto dalla sua veste piena di astri, a Dioniso in visita nella città fenicia.

‘Paesaggi fenici’, li ebbe a chiamare Pierre Cintas[8], fondatore dell’archeologia fenicio-punica moderna in Occidente. Non troverei debole, quanto piuttosto aggiornabile, la definizione,  espressa genericamente ma con sostanziale validità,  ripresa qualche anno fa da Sandro Filippo Bondì [9] che ne articola il concetto di singolo paesaggio in pluralità.

I modelli del paesaggio fenicio si riproducono dai  luoghi di partenza a quelli di sosta e transito entro il mare fra le terre, e il luogo che li riproduce comunica il ricordo del mito fondativo. Qua a Bosa la dimensione fenicia ci sfugge materialmente:  sono poche quelle lettere pure assai arcaiche[10] di un’epigrafe da tempo perduta, ma non sfugge il paesaggio del mito, e il suo stare nella rete di città e presenze fenicie entro i secoli che precedettero la conquista di Cartagine.

Nel paesaggio del  mondo conosciuto fiume e mare sono  vettori di conoscenza  e  relazione territoriale. Il mare che definisce con la terra comprende Bosa entro una linea di navigazione costiera, da porto a porto, racchiusa  fra due poli di Melqart come l’isola dell’Asinara[11] e l’Heraklèous limén[12]. A occidente, in mare aperto: verso le Isole Pitiuse e la Penisola Iberica.

 

Paesaggi fluviali

Il fiume annuncia un arrivo e un ingresso, e assieme al mare è controllato, prima dei tempi fenici, dalle torri nuragiche: da quella di Monte Furru[13] a Sud a quella di Santu Lo o Eligio lungo il Temo[14]. Nella piana di Pedra Senta, a est della linea marina e di quella fluviale, la spettacolare torre del nuraghe Nuraddeò, da noi indagata a più riprese[15],   punta avanzata di un bacino nuragico molto significativo, sembra davvero un caposaldo territoriale.

Se non vi è per ora diretta contezza materiale della fase fenicia, certa è l’attestazione punica, nella città e con dati evidenti nel territorio[16], dove si presenta in attestazione di antropologie, monete, ceramiche, tra le quali anfore commerciali tardo-puniche e ceramica da cucina come nel caso di Tres Bias  di Tinnura, con nuraghe e villaggio che mostrano fasi di riutilizzo di età tardo-punica e romano-repubblicana con evidenza stratigrafica [17], e nelle diverse documentazioni a Flussio, Modolo, Suni, Magomadas[18].

La linea di ingresso territoriale lungo percorsi fluviali e valichi di fondo valle porta uomini e progetti:  forse è specchio di una realtà urbana il rilevante centro punico di Sa Tanca ‘e Sa Mura,  presso Monteleone Roccadoria, unico abitato rurale del settentrione, ora sommerso dal bacino artificiale dell’Alto Temo[19], i cui materiali, anche se meno nobili di altri più celebri reclusi, attendono di essere studiati completamente da ormai trent’anni (e forse non sarebbe inutile costruire altre indagini di scavo).

Dal paesaggio del mito e del viaggio, siamo passati al paesaggio della città di popolamento e della produzione agricola. A Herakles Astrochitone si sono sostituite le buone pratiche agricole di Demetra e Kore[20] e le fucine del ferro[21].

 

Il paesaggio come identità, l’identità come valorizzazione

Sono queste diverse morfologie storiche, nell’alveo concettuale che chiamiamo ‘paesaggi culturali’, a dar  vita a quell’entità per alcuni solo minimalisticamente misurabile, se non in prevalenza fatta di metrature e cubature, che è il territorio; a sua volta il paesaggio prende vita e colore dai luoghi e dalla loro identificazione.

Il concetto di ‘paesaggio culturale’, sviluppatosi con il Novecento[22], ha vissuto negli ultimi decenni un’accelerazione teorica e  importanti ricadute nelle normative della tutela[23]. La sua configurazione è mutevole, grazie alle ‘creazioni’ ed alle tracce lasciate dall’opera dell’uomo. Come legare la parola necessaria eppure ambigua ‘valorizzazione’ alla sua tutela? Come proteggere, per noi e per la stupefacente occasione di visita che rappresenta, credo con pochi rivali, la bellezza dei luoghi assieme all’intensità delle trame storiche?

Il paesaggio, come l’identità, è un insieme di segni per certi versi inseparabili che si compongono dando vita a un luogo, un bene comune complessivo da ritenersi matrice, che contiene le reti costituite dai diversi beni culturali e paesaggistici: dove si confrontano e legano i saperi dell’archeologia e dell’architettura, dell’arte e dell’antropologia, dell’urbanistica e dell’ambiente, la geografia[24].

La relazione fra identità e sua percezione, l’organizzazione di studio, tutela e fruizione pretende necessariamente un approccio e una logica di rete che sovrintenda, prima ancora che politicamente, concettualmente alle necessarie azioni. E’ che siamo abituati ormai a ragionare per monadi: archeologi, valorizzatori, urbanisti, guide, costruttori;  uno scavo qua, una valorizzazione là, un diligente museo con qualche vetrina linda, almeno per i primi tempi. C’è  anche chi pensa di dover valorizzare soprattutto il nuragico, con una deriva etnocentrica che si spera inconsapevole, ma sembra rispondere più che ad una lettura reale del paesaggio a discriminanti ideologiche. Esse si aggiungono, con effetto disarmante, a quelle operate a lungo dalla selezione romanocentrica della cultura italiana rispetto alle indicazioni del territorio sardo.  Come che il paesaggio debba essere letto, indagato e percepito sulla base di un gioco di specchi fra imposizione del potere e resistenza. Ma torniamo agli aspetti concettuali.

Il paesaggio è solo – e già non sarebbe poco- una precisa e corretta sommatoria di epoche e testimonianze?  L’art. 131 del D. Lgs. 42/2004 ,  indicandone la tutela delle sue espressioni culturali, segnala  “il territorio espressivo di   identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni.” E’ il frutto credo del recepimento prima indicato della  Convenzione Europea che  definisce il paesaggio, nel suo primo articolo, come << Una determinata parte di territorio così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni>>.

L’apparente oggettività di questa limpida definizione indica in realtà il rischio di un appiattimento al già noto, di una stasi fortemente conservatrice. La percezione delle popolazioni, e quindi la coscienza, e quindi la costruzione dell’identità, rischia di subire una lettura idealistica statica che può essere superata se il paesaggio non è considerato ‘solo’ quello che percepiamo, ma se la percezione è data dalla coscienza dei suoi diversi elementi formativi:  questa coscienza si forma diversamente a seconda che i segni del paesaggio vengano scoperti, oppure occultati o addirittura distrutti.

Osservazioni che non dovrebbero sfuggire alla geografia contemporanea, attenta al fatto che un paesaggio culturale  affianca  alla realtà visibile un patrimonio ‘immateriale’ carico di racconti fantastici, sogni e metafore, e che il contenuto di tale patrimonio non è senza significato per le nostre progettazioni di territorio e paesaggio, come ci ricorda Massimo Quaini[25].

Per concludere questo ragionamento e avviarci alla fine del nostro intervento, sintetizziamo il percorso dal primo passaggio: se Bosa sembra mostrare nel  suo segno l’impronta del paesaggio fenicio, nella relazione identità/paesaggio/ percezione/tutela/ valorizzazione dovrà  raccontarlo di per sé e assieme agli altri segni storici.   Il racconto del territorio dovrà perciò  saper offrire il senso del paesaggio nelle diverse civiltà; è per questo che serve lo studio, che i saperi ed i lavori relativi trasformano in valore aggiunto e identità allargata.

Abbiamo visto, fra il mare ed il fiume, il paesaggio del mito fenicio e quello del popolamento cartaginese, quello marino di alto mare, dei viaggi  degli eroi e dei mostri da essi dominati e controllati, e che pure gli eroi accompagnano. Di orche, balene e delfini sulla rotta dei capodogli, sino al ‘Santuario Pelagos’[26], l’area marina protetta di interesse internazionale per i Mammiferi marini (come abbiamo visto, con i miti che interpretano e trasmettono[27]) .  Attenti perciò al fiume e al mare, e alle terre che essi lambiscono e attraversano. Al viaggio e al popolamento che definiscono segni, confini e presenze, alla fruizione che percepisce tutto ciò. Alla libertà del viaggio in mare aperto, modello che serve per le relazioni, le identità e le economie sostenibili che dobbiamo costruire per le nostre terre, concetto che non può prescindere dal paesaggio marino e che in esso si compone,  e per le generazioni future. Non sfugge a chi lavora nella cultura che il territorio, e questo territorio della Sardegna, per terra e per mare, subisce l’aggressione (a ciò di cui si discute in questa giornata, alla cultura) che occulta tali processi: il rischio di una rottura dello scambio culturale e della ricchezza sostenibile a causa di trivellazioni che si vogliono porre nel cuore dei luoghi, nelle relazioni fra questo antico luogo di mare e fiume, che è Bosa, e i mari e le terre alle quali le rotte marine conducono. Ciò che ci ha portato, con forza, a diventare guardiani delle rocce e del mare dalle torri costiere, a sentire l’esigenza di non abbassare la guardia[28].

 

 

NOTE AL TESTO

[1] JACOB 1983, pp. 49-67

[2] DELEUZE, GUATTARI 1987, p. 10.

[3] MADAU  2013, pp. 63-6.

[4] FANTAR 1972, pp. 53-5; MADAU 2010.

[5] Thuc., VI, 2.

[6] FANTAR 1972, p. 53.

[7] Non., Dion . XL, 311-80.

[8] CINTAS 1954, pp. 94-5.

[9] BONDÌ 2011, p. 14.

[10] MORAVETTI 2000, p. 107; MASTINO 2005, p. 30; GARBINI 2006, p. 90.

[11] MADAU 1998.

[12] MASTINO 2005, pp. 237-9; BARTOLONI 2009, pp. 57-95.

[13] MORAVETTI 2000, pp. 110; 119; 178.

[14] Id., pp. 123; 173.

[15] MADAU, MANCA DI MORES, RELLI 2003. In anni recenti si segnala l’intervento coordinato da Gabriella Gasperetti.

[16] MADAU 1994, p. 102; SATTA 1996; MASTINO 2005, p. 27; COCCO 2012, pp. 2227-8, n. 9.

[17] MADAU 1993; LOGIAS, MADAU 1998.

[18] MADAU 1994, p. 101; MASTINO 2005, pp. 324.

[19] MADAU 1997.

[20] MANCA DI MORES 1990, pp. 521-3; GARBATI 2003.

[21] D’ORIANO, SANCIU 1996, p. 133; MADAU 1997; FINOCCHI 2002; BOTTO et alii 2003; POMPIANU 2010, in part. p. 1280 e note relative.

[22] Le prima definizione ‘classica’, agli inizi del Novecento, è ritenuta quella tedesca, cfr.   SCHLÜTER  1928; ma in Italia nel 1905 abbiamo la prima legge che definisce un paesaggio culturale (la legge 411 “Per la conservazione della pineta di Ravenna”),  legata ad una visione essenzialmente antichistica e di pregio; concetti di rarità, bellezza e pregio ancora ben radicati nella normativa (si veda la Legge 1497 del 1939 sulla «Protezione delle bellezze naturali»), sino al cambiamento di campo introdotto dalla ‘ legge Galasso’ (Legge 431/1985), che innova concetto e normative della tutela urbanistica e del paesaggio, inserendovi ad esempio le aree archeologiche.

[23] Si fa riferimento, in linea generale, alla Convenzione Europea per il Paesaggio (Firenze 2000) e al recepimento della stessa, con ulteriori articolazioni, nella legislazione italiana, in particolare nel D. Lgs 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).

[24] Alcuni esempi fondamentali di queste interrelazioni in DEMATTEIS 1985; SERENI 1997; MAGNAGHI 2006; QUAINI 2006; AUGÈ 2007; SALZANO 2007 (in particolare pp. 207-32), RAFFESTIN 2007; infine, vedi discussione e contributi multidisciplinari nella  ‘Società dei Territorialisti’ (http://www.societadeiterritorialisti.it/).

[25] QUAINI 2006, p. 12.

[26] http://www.sanctuaire-pelagos.org/It/

[27] MADAU 2010.

[28] OSSERVAZIONI 2014 ; MADAU 2014;

 

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