Un dato – la ricchezza del patrimonio archeologico e paesaggistico – accomuna le diverse aree della Sardegna le questioni del consumo del territorio e le aggressioni all’ambiente. Aggiungiamo ad esso un’occupazione speculativa dell’isola portata da un colonialismo che è profondamente cambiato, più delle nostre analisi critiche spesso un po’ retrò: tracciata da un vecchio quadro storico che prima aveva un progetto globale; ma ora non c’è più la nazione coloniale, e oggi il neocolonialismo si specializza luogo per luogo.
Opera – senza trascurare la vecchia e sempre efficace ricetta del profitto immobiliare – con centrali energivore, fabbriche nocive, inceneritori, richieste di interventi finalizzati alle estrazioni di combustibili o di nuove colture destinate in genere alle produzioni di materie plastiche oppure, ancora, per nutrire energia nociva o semplicemente sovrabbondante, a noi inutile.. Progetti accompagnati e sostenuti e riveriti da una classe politica servile e maleodorante.
Il dato comune del patrimonio archeologico e paesaggistico è importante, onnipresente; la coscienza della sua prigionia cresce, come le radici di certi alberi spaccheranno l’asfalto.
A Porto Torres il nuraghe Nieddu in libertà vigilata dall’ENI, e lo straordinario deposito paleontologico di Fiumesanto schiacciato non solo metaforicamente dai veleni si associano allo stagno di S’Ena Arrubia presso Arborea, sotto tiro delle trivelle Saras; i nuraghi di Macomer ‘Tossilo 1’ e ‘Tossilo 2’ imprigionati, con attorno le pregevoli aree di Monte Sant’Antonio-Tamuli e Nuraghe S. Barbara, si legano ai monumenti di Cossoine, Giave, Bonorva. Sino ad arrivare alla fortemente simbolica associazione fra l’area industriale di Sarroch e il nuraghe multiculturale di Antigori.
Ho analizzato molti di questi progetti, impostando osservazioni da inviare al SAVI o al Ministero dell’Ambiente: l’atteggiamento che accompagna la nuova molecolare aggressione non ha di fondo alcuna considerazione o scarsa considerazione del patrimonio; talvolta cerca però di cavalcarlo se è importante, o anche solo per strizzare l’occhio ad esso e alla comunità di riferimento. Fino a rivendicarlo. Il messaggio allora diventa “noi sì che lo valorizziamo”: una ‘passione’ ambientale e culturale ha qualcosa di osceno e molto di falso, ma è pienamente funzionale al nuovo messaggio ideologico dove spesso proprio i peggiori nemici dell’ambiente, mentre si preparano a dargli una mazzata, parlano di sviluppo sostenibile. Progetti che non danno l’impressione di aggredire direttamente i monumenti, e i paesaggi che li esprimono e contengono, perché non vedono il contesto.
E infatti lì che avviene l’aggressione, nel taglio della rete che esprime i segni dei luoghi e forma le visage du pays, nel proporre nuove forme e focali del paesaggio. Un nuovo paesaggio, dice persino qualche progettista, magari da sottoporre fra qualche decennio a tutela…
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Il numero in crescita dei comitati territoriali è il riflesso e la risposta della società sarda, e colpisce rispetto all’inerzia e alla complicità della politica di delega palatina. È questa nuova situazione che può unirsi al patrimonio e fare dei beni comuni di ogni luogo beni comuni per un popolo e un territorio intero, da trasformare in progetto dove le risorse principali siano ambiente e cultura.
E’ necessario, direi urgente, percorrere una strada che mi appare l’unica possibile, in una Sardegna che ha Mont’e Prama ovunque, che non è solo Mont’e Prama; che esprime ventimila monumenti archeologici, e tradizioni, e architetture, che possono costruire lavoro diffuso. Una strada che deve trasformarsi da opposizione, pur fiera e sacrosanta, in egemonia progettuale. Che deve organizzare severamente e con intransigenza i saperi, pretenderli senza dilettantismo, imparare a scambiarli e a farli crescere con rigore, perché ci servono e così ci servono.
Ad esempio: si deve certamente partire dall’irrinunciabilità alla salute, dal no – senza negoziazione possibile – all’inconcepibile violazione dei corpi, alla produzione di malattie letali, lunghe, radicate, che spesso non lasciano scampo; ciò è prerequisito della costruzione di un modello sociale ed economico per l’autodeterminazione della Sardegna, ma può trovare proprio nei beni del paesaggio la capacità di andare oltre e provare a costruire, scegliendone risorse e caratteristiche, un modello completamente nuovo.
Non basta però rispondere con la salute, né con l’ambiente: una parte molto rilevante della classe operaia si è abituata, spinta dalla crisi e grazie ad una gestione non sempre responsabile degli stessi dirigenti e del loro collateralismo con la politica, a barattare lavoro e salute, come hanno detto e ammesso, con affermazione orribile, le autorità sull’orrore di Fiume Santo.
Dobbiamo allora parlare di salute con trasparente intransigenza ma progettando attorno ad essa lavoro, la speranza oggi assente; però quel lavoro da far emergere e costruire partendo dal patrimonio culturale dei luoghi, che non monetizza la salute e costruisce ricchezza, che è possibile.
E’ già in campo, anche se in maniera diseguale, a volte con profili di qualità: quando io percepivo l’aria di Tossilo, alla manifestazione di qualche settimana fa, di fronte al ‘vecchio’ inceneritore vedevo i paesaggi e pensavo alle produzioni agroalimentari e al lavoro dei gruppi che hanno in custodia e guida grandi monumenti della bella archeologia del Marghine (lavoro tradotto in buste paga mi diceva uno dei soci; aggiungo io, non quello del volontariato sostitutivo – altra cosa da quello correttamente sussidiario – che piace tanto a padroni e governi, che non è lavoro).
I dati della costruzione di lavoro e ricchezza mediante l’economia dei beni culturali e del paesaggio sono in crescita nella letteratura statistica e scientifica. In Sardegna abbiamo ‘tecnicamente’ il paesaggio più bello e variato, e lo stesso possiamo ampiamente dirlo per i beni archeologici.
Non stiamo parlando di una categoria, né di una percezione, estetica, ma del paesaggio come principale dei mezzi di produzione, che unisce valore d’uso e valore di scambio: si può costruire ricchezza con le memorie – quelle vere – che lo tracciano ed il paesaggio rende percepibili.
Le caratteristiche lo rendono forte nello scenario economico: irripetibilità dell’ambiente e del patrimonio culturale per quantità, qualità e varianti, scarsa pressione antropica, forte carica simbolica, notevoli distese coltivabili e di pascolo per l’alimentazione e la capacità di una biodiversità ricca, variabilissima, pregiata.
Punto di forza al centro di una corretta economia del tempo libero e del ‘paesaggio felice’, ne esprime le sue potenzialità storiche e biologiche rispettando l’uomo e l’ambiente.
Il modo di produzione basato sul paesaggio e la cultura, che può essere la nostra chiave di volta e come tale andrebbe a mio parere scelto, viene ucciso o reso opaco (ma sul mercato del tempo libero è più o meno lo stesso) dalla presenza di mostri inquinanti, di piattaforme petrolifere nel mare dei transiti culturali e dei paesaggi, di cardi pungenti nell’economia della buona produzione agricola e della conoscenza. E anche dalla scorciatoia delle antichità ad effetto e delle falsificazioni ideologiche e para-esoteriche buone solo al mercato della Sardegna che piace ai colonialisti: selvaggia, esotica, inattendibile, l’isola che non c’è….
C’è bisogno di preparazione, qualità dell’offerta, lavoro competente e retribuito, dell’unione fra i produttori del cibo e della biodiversità con quelli del lavoro cognitivo, senza lasciare ad altri la qualità e la scientificità, ma rivendicando formazione e saperi. Un discorso che di per sé si porta dietro quello sulla formazione culturale, sull’istruzione pubblica; che si integra con tanti altri settori: turismo, produzione, ambiente, artigianato; con la pianificazione urbanistica e le professioni. Che può servirsi delle nuove leggi che riconoscono, finalmente, i lavoratori cognitivi della cultura, che rendono obbligatoria (è finalmente ratificata la convenzione di Malta) nel progettare territorio l’analisi archeologica preventiva.
Paesaggio allora come bene comune ‘matrice’, in quanto contenitore generale di beni comuni, e le comunità residenti, alle quali spetta la proprietà di questo mezzo di produzione, soggetti reali per la gestione dei beni comuni. Mi piace pensare questa produzione cognitiva e dei beni comuni come la nostra ‘fabbrica diffusa’ e davvero pulita, a gestione democratica.
Io credo che non sia possibile una mediazione fra il neo-colonialismo molecolare e una Sardegna che sviluppi questo nuovo modello sociale ed economico, l’unico secondo me a poter condurre verso una possibile, solida e piacevole liberazione. C’è da mettersi al lavoro.
(20 aprile 2015, reloaded)