Di nuovo il silenzio assenso. E’ giustificato e preoccupa l’allarme lanciato da Giuliano Volpe, presidente del Consiglio Superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ del Ministero sul disegno di legge ‘Madia’ (‘Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche’, C. 3098) attualmente in discussione. Il preannunciato no (vedi qua la lettera) è pronunciamento pesante, ma questo governo ci ha abituato all’indifferenza verso pareri e pronunciamenti seri e impegnativi.
Basandosi sulla comprensibile esigenza di accelerare i tempi di risposta delle amministrazioni pubbliche, si riprendono idee percorse nel 2003 dal governo Berlusconi e nel 2006 da quello di centro-sinistra (Prodi) per inserire nel corpo della tutela dei beni culturali e del paesaggio la norma del silenzio-assenso. In questo caso la norma riguarda i rapporti fra amministrazioni pubbliche. Vediamo di cosa si tratta, in estrema sintesi.
Per l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, il termine per comunicare il proprio assenso, concerto o nulla osta è di sessanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell’amministrazione procedente. Decorso il quale senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, si intende acquisito. E’ quest’ultima frase che il Presidente Volpe chiede venga tolta dal disegno di legge in discussione.
L’oggettiva necessità di velocizzare le procedure amministrative non può andare, o peggio essere usata strumentalmente a tale scopo, verso un indebolimento e rischio di assalto al patrimonio culturale.
Come è noto, l’elaborazione dell’insieme di scritti, fotografie e cartografie che possono essere necessarie per tali procedure rappresenta un’operazione di per sé non necessariamente veloce e delicata. I conti sono presto fatti: uffici che mediamente non riescono a seguire per ragioni strutturali il carico di lavoro di un territorio di grande ricchezza rischiano di non riuscire a far fronte a un numero anche esiguo di richieste. Così, per una questione di carenza di strutture, si rischia di rendere inesistenti beni culturali di fatto, ma non più di diritto. L’unica via che nel disegno di legge permette un allungamento dei termini, che potrebbe essere comunque insufficiente, sono ulteriori trenta giorni eventualmente concessi in presenza di esigenze istruttorie o richieste di modifica, motivate e formulate in modo puntuale nel termine stesso.
Per cogliere i rischi inerenti a questa misura serve tenere a mente il quadro sempre più debole, in addetti e dotazioni finanziarie , delle istituzioni della tutela nel territorio (ovvero le Soprintendenze), una crescita dei contenziosi (che si lega da un lato all’aumento della coscienza dei beni, del loro riconoscimento e del loro ritrovamento, dall’altro all’aumento dei fenomeni speculativi sul paesaggio) e i gravi ritardi del riallineamento della pianificazione urbanistica nelle varie regioni.
Proprio in Sardegna il provvedimento, se approvato, potrebbe essere molto insidioso: alla fine del 2014, prima di chiudere la non rimpianta esperienza di governo regionale, Ugo Cappellacci licenziò il suo ‘PPR-S’ con un imponente ridimensionamento della classificazione, e quindi della ridefinizione dei beni identitari che investiva la maggior parte delle individuazioni monumentali (non solo quelle identitarie). Ne conseguono due linee di individuazione: una regionale, ovvero comunale, costituita da pochi beni, l’altra statale, con la maggior parte di essi. Misure che non mi risultano essere state modificate.
Se si considerano le decine di migliaia di monumenti sardi, e l’indebolimento ulteriormente aggravatosi, di recente, della rete della tutela ministeriale in Sardegna, i rischi appaiono evidenti.
Non serve gridare demagogicamente, con interrogazioni parlamentari e outing seriali, sull’attacco al patrimonio sardo (in genere con denuncia selettiva a quello nuragico), senza vedere e combattere questa linea di tendenza, che permette di capire la dinamica neo-centralista in atto: viene pesantemente indebolita la pianificazione urbanistica luogo per luogo, ovvero l’unico presidio possibile del nostro immenso patrimonio, rimandandola allo Stato. Si indeboliscono nel contempo gli organi periferici della tutela, e infine si promulgano provvedimenti che favoriscono l’assalto al paesaggio e ai beni culturali. Invece di aumentare tutela e valorizzazione, si diminuiranno i monumenti per ‘silenzio-assenso’.
Sono misure e leggi che si affiancano ad altre che consentono assalto a terra e mare, che si inseriscono in una strategia davvero organica. Fa bene perciò il Presidente Volpe ad annunciare il no dell’importante organismo ministeriale che presiede. Ma la denuncia non basta. Il sistema non regge comunque, va riscritto e riorganizzato.
Intanto sarebbe utile prevedere ed esternalizzare attività professionali di supporto ai funzionari responsabili del procedimento: ci sono già diverse leggi che prevedono il ruolo e il lavoro dei professionisti dei beni culturali e paesaggistici, sino alla recente legge 110/2014 (“gli interventi operativi di tutela, protezione e conservazione dei beni culturali nonché quelli relativi alla valorizzazione e alla fruizione dei beni stessi, sono affidati alla responsabilità e all’attuazione, secondo le rispettive competenze, di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte, in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale “).
Ma la più efficace riforma possibile sarebbe quella di articolare la tutela territorio per territorio, aumentando e non diminuendo le competenze di governo dei beni culturali da parte degli stessi comuni. La ritengo l’unica strada efficace, e anche la sola che possa preparare un passaggio di competenze legato all’autogoverno, che non venga strumentalmente inteso come assenza di tutela al fine di dare via libera alla speculazione, ma come motore di protezione e sviluppo del paesaggio e della cultura del nostro territorio.
(3 luglio 2015)