Un bello impossibile di nome Ithocor, oppure Orzocor.
Riemerge attorno a un viso lontano, improvvisamente riavvicinatosi, la discussione su Mont’e Prama, nel Sinis di Cabras, in Sardegna, un luogo che si è imposto nell’archeologia mondiale per la sua necropoli e la straordinaria serie di sculture di età nuragica, statue colossali e modelli di nuraghe.
Il racconto di Mont’e Prama si disegna ampio fra la dimensione storica e scientifica (che procede con gli scavi e le analisi), compresa la recentissima ricostruzione del viso di uno dei sepolti della necropoli, sino al kitsch che moltiplica in piazzette sarde le sommarie, terribili copie di ‘zigantes’ coraggiosamente (nel senso sardo: bi cheret corazzu/ci vuole coraggio) esposte all’EXPO’ 2015, di ingresso allo stand Coldiretti. Intanto l’archeologia-spettacolo, con tempi, relazioni e obiettivi di carriera e mercato ad essa congrui, permea la comunicazione dei mass-media e quella scientifica: nel lancio delle notizie la ricostruzione del cranio diventa il viso di un eroe, se non di un guerriero raffigurato dalle statue, e un muro fra i dodici e i quindici metri diventa certamente il tempio o, in attesa di più sostanziosi dati urbanistici, una città nuragica….
Quando parliamo di genti antiche è naturale il tentativo di rendere meno aspra una distanza temporale incolmabile, e la società perduta che riappare non era una serie di vasi e cocci e manufatti in vetrina. Come fossero fatti donne e uomini di quei tempi, che lineamenti avessero, cercare oltre le espressioni statiche che ci consegnano, per le necessità della rappresentazione, le iconografie, è domanda legittima, se non ne corrompe in partenza la risposta il pregiudizio ideologico.
Le descrizioni delle fonti su tratti, portamento, carattere sono generalmente di persone celebri e con specifiche identità, così la ritrattistica; soccorrono molto parzialmente le iconografie, fra dettaglio anatomico e immagine ideale (quando non prevale esclusivamente questa, e del dettaglio resta al massimo qualche ombra). Oggi lo studio dei resti scheletrici, e in particolare dei crani, consente di avvicinarsi al reale, pur con il rischio, ben noto agli studiosi, di caratterizzazioni provenienti dalla nostra cultura.
La proposta ricostruttiva del viso nuragico da Mont’e Prama inserito su un impianto a mezzo busto è stata per alcuni spiazzante, non corrispondendo ad una certa immagine del sardo convenzionale, scuro e peloso, di fuori e nel cuore. Invece, se qualche pelo appare sul petto (ma di esso non c’è testimonianza ossea), si mostra un viso giovane, quasi androgino, con due occhi asimmetrici, percepibili nel teschio. Oltre al cranio ben conservato statue e bronzetti nuragici hanno suggerito le trecce: non è certo ma è possibile che il defunto potesse averle. Più arduo esprimersi sul colore dell’incarnato, il rossore, la luce degli occhi. D’altronde una ricostruzione trasferisce strumentazione e ambientazione complessiva propria della nostra epoca, compresa i fumetti, i cartoni, gli strumenti di grafica digitale e di rendering avanzato.
Tutto ciò a seguito del lavoro condotto da un’équipe dell’Università degli Studi di Sassari coordinata da Salvatore Rubino e in relazione con un laboratorio della John Moores University di Liverpool (un fatto positivo questo della collaborazione inter-istituto, scientifica e internazionale, su un tema così importante del nostro patrimonio. Anche se ben altro servirebbe per l’insieme dell’impresa ‘Mont’e Prama’: si spera che possano almeno comporsi le tensioni istituzionali, magari con un ruolo di promozione e coordinamento – so di sfiorare l’utopia assoluta – della Regione Sardegna verso orizzonti e strategie ben più ampie, con uno scavo diretto da archeologi sardi e la partecipazione di diverse équipes internazionali, come avviene in alcuni grandi siti archeologici mondiali. E’ che bisognerebbe partire dall’acquisizione totale delle aree per poter disegnare strategie e indagini che non seguano le proprietà dei diversi fondi ma la vera natura del sito: come da ultimo il lungo tratto murario nuragico, con la conseguenza di uno scavo che non riesce a progettare e a realizzarsi in estensione come dovrebbe, costretto a seguire le ‘necessità’ tipiche degli scavi di emergenza, persino operando ‘a pettine’, secondo vecchie tecniche, per capire preventivamente l’estensione delle aree monumentali, come proposto dalla Soprintendenza Archeologica).
Più arbitraria e intima, perciò invasiva e segno di una confidenza mai concessa, è la determinazione di attribuire un nome. Nell’assegnare un nome a un essere antico scelte e coordinate ideologiche si evidenziano in maniera diversa, forse ancora più direttamente che nella interpretazione iconografica: pensate alla clamorosa attribuzione – limpidamente colonialista e molto britannica – del nome Lucy all’austrolopiteca di tre milioni di anni addietro rinvenuta nel 1974 in Etiopia (pare dalla “Lucy in the Sky with Diamonds” dei Beatles). O la scelta di chiamare ‘Proto’ la scimmia antropomorfa, un oreopiteca di circa otto milioni di anni fa, trovata nel 1994 a Fiume Santo, presso Porto Torres. Si pensò a ‘Proto’ come ‘Primo’, ma ci fu anche l’ammiccamento ad uno dei martiri turritani: fortuna che non se ne trovarono altre due. Poi la scimmietta si rivelò di sesso femminile e il santo, martire, sparì per questioni di genere e restò il ‘Primo’. Se poi si rinvenissero scimmie più antiche rimarrebbe la scorciatoia del ‘Pre’.
Suggerito il viso del defunto nuragico, è scattata la discussione su come battezzarlo: Ithocor, nome medievale del giudicato di Torres ma di calco preromano, presente in attestazioni epigrafiche di età romana, oppure Orzocor, sempre di orizzonte medievale e giudicale, ma stavolta di Arborea, e ugualmente attribuibile a strato preromano. Il primo proposto da Attilio Mastino il secondo da Raimondo Zucca (che lo preferisce – essendo oltretutto oristanese – per la sua ambientazione più congrua al territorio di Cabras, da dove provengono defunti e statue): premesso che si tratta di un indigeno nuragico, il nome viene cercato fra quelli noti relativi allo strato linguistico preromano, con in più la suggestione dell’età giudicale…
Una scelta certamente più corretta di quella Lucy così colonialista, e meno santificante del Proto di Fiume Santo (anche se nulla potrebbe far escludere una provenienza di qualche nuragico dal Campidano, e, oltre ai nomi di Torres e Arborea, di poter proporre un Torchitorio). Aggiungo che i nomi cominciano a essere molti e diversi: al prestigioso Centro di Li Punti , e qua ci riferiamo direttamente alle statue, fu dato un nome ad ogni guerriero, almeno fra quelli restaurati: da Cabrarissu a Lussurgiu, da Pantzosu a Larentu, da Bobore a Isbenntiau a Sirboniscu a tanti altri. Oggi altri centri operano il restauro delle nuove statue, e non sappiamo se ci saranno nomi nuovi, e con quale criterio. Ora ci sarebbe Ithocor, oppure Orzocor. Un po’ si rischia la torre di Babele.
Purtuttavia, perché dargli un nome? Capisco e apprezzo l’intento didattico, il tentativo di avvicinamento alla persona e al periodo tramite un ponte affettivo: come certamente lo è, pur nella lievità tipica del 2.0, la discussione nata sul suo viso. Ma, a prescindere che sarebbe in ogni caso prudente aspettare le previste analisi del DNA, annunciate da Salvatore Rubino, mi sembra più corretto scientificamente, e rispettoso delle persone sepolte, non dare nomi che saranno sempre e comunque non reali. Si ripropone una vecchia e sempre valida battaglia per archeologi e storici, antropologi e storici dell’arte: evitare il trasferimento sui contesti più antichi delle proprie idee e convinzioni, almeno provare a contenere questa pratica. Cerchiamo di avvicinarci, e forse ci allontaniamo…
Un ultimo punto. Dalla comunicazione di lanci, titoli e articoli emerge il suggerimento netto e talora l’affermazione che si tratti del viso di uno degli eroi, uno dei guerrieri di Mont’e Prama rappresentato nella statuaria: ma la relazione fisica diretta fra defunti sepolti nelle tombe e guerrieri espressi dalle sculture è tutta da dimostrare e mi appare, allo stato delle ricerche, ampiamente improbabile.
I signori delle statue sono una rappresentazione simbolica e memoriale, nella Prima età del Ferro, di più antichi antenati fondatori ed eroi della Sardegna nuragica; ad essi fanno riferimento i sepolti della necropoli, defunti di una comunità di rango sacerdotale e aristocratico (due aspetti che qua, e spesso nella Sardegna nuragica, stanno assieme) che si autodefiniva erede di quei fondatori, governando un grande santuario della memoria nuragica, e i suoi riti stagionali, in un momento storico nuovo, di cambiamento. Se le città fenicie, e in questo caso Tharros, non erano ancora edificate – ma Sulci ha ormai dati di IX secolo a.C. – la costruzione di nuovi orizzonti economici, sociali e territoriali era in pieno agire. Fenici, nuragici e greci si incrociavano da Cartagine a Cadice, e la Sardegna non era una semplice tappa. Dopo la fine degli Stati Palatini vicino-orientali e dei regni micenei, e anche dei ‘palazzi’ nuragici del Bronzo Recente e Finale, si andava a costruire un mondo nuovo.
Intanto, mentre l’attenzione va sul viso e sui nomi, restano intatti i problemi di sostanza: poter operare una ricerca archeologica in estensione e non per particelle catastali, l’errata divisione delle sculture fra più musei, con gli esemplari ritenuti più rappresentativi a Cagliari e la connessa, mancata scelta strategica dello sviluppo locale, con latitanza della Regione (inizialmente contraria alla divisione in più musei, poi accomodante, infine rinunciataria). Soprattutto l’assenza regionale di un ruolo propulsivo e non di pura distribuzione di risorse.
L’estate rende tutto più leggero e, nella sua insuperabile calura, anche le bollicine fresche a qualcosa serviranno.